Una scena di Flaming Creatures, cortometraggio di Jack Smith (Immagini prese da Youtube)

L'avanguardia estrema di un esteta

Costantino della Gherardesca

Alla pallida allegria dell'America anni Sessanta preferiva l'esotismo hollywoodiano. Fotografo, regista di film proibiti, performer, Jack Smith finì per diventare egli stesso una performance vivente. Inghiottito dall'Aids 

"You can't achieve artistic results with normals" (Jack Smith)

 

A volte, per allontanarci dalla mestizia della nostra quotidianità, basta ricordarci la vita dei più grandi pionieri dell’arte. Per esempio, quando versare l’affitto mi butta giù, penso a un uomo che ha dedicato la sua intera esistenza a combattere i princìpi base del capitalismo, tra cui il landlordism, ossia il rapporto di asservimento tra il proprietario della casa e chi pur vivendoci e vivendola in pieno, è costretto a pagarla.

 

Jack Smith nacque a Columbus, Ohio, nel 1932, e trascorse la sua prima adolescenza alimentando il suo immaginario di giovane omosessuale di provincia con ripetute e ossessive visioni di film con Maria Montez, una modesta attrice che dominò il cinema anni Quaranta con pellicole arabeggianti piene di svenevolezze, scimitarre e pitoni. Le mille e una notte, Selvaggia bianca, Alì Babà e i 40 ladroni, Il cobra, La schiava del Sudan… Tutta quella splendida paccottiglia esotica, annegata nelle tinte sensuali del Technicolor, spinse Smith a rifiutare nettamente la “pasty cheerfulness” (ossia la “pallida allegria”) del capitalismo occidentale, quel senso di forzato ottimismo progressista che regnava nell’America ripresasi dalla Grande depressione (che, iniziata nel 1929, si fece sentire per tutti gli anni Trenta) ma ancora stravolta dalla Seconda guerra mondiale. A quella pallida allegria filogovernativa, Smith preferiva i maliziosi sottotesti dell’esotismo hollywoodiano, quel sogno di un oriente tutto fiaba, poesia, intrighi di corte, cuscini di damasco e ampolle di veleno. Insensibile al rock’n’roll, che a metà anni Cinquanta si impose ufficialmente nel mercato musicale, Smith preferiva i ritmi suadenti dell’exotica, un pastiche di suadenti sonorità hawaiane e pseudo-tropicali canonizzato e portato al successo da Martin Denny, musicista che Smith adorava e che ha sensibilmente influenzato la sua poetica.

 

È incredibile come un avanguardista estremo come Smith fosse in grado di trovare perle di significato in film minori e nei dischi di Martin Denny, allora etichettati come muzak, cioè “musica per chi non ha intenzione di ascoltare musica”, spesso usati per sonorizzare gli ascensori o i supermarket, ma questa era proprio l’estetica di Jack Smith. “Se passeggiando passavamo davanti a una montagna di spazzatura, lui si fermava e risistemava la spazzatura a suo gusto” ricorda il suo assistente Abbe Stubenhaus, nel documentario The distruction of Atlantis (2007). “Per lui la vita andava estetizzata”.

 

Dopo aver realizzato un piccolo cortometraggio nel 1951 (che già nel titolo, Buzzards over Baghdad, richiama i film della sua infanzia), Smith si trasferì a New York, dove esordisce come fotografo. Fin da subito si distingue per il suo totale disinteresse per la fotografia di quegli anni: nessun legame con l’afflato sociale e antropologico della ritrattistica tanto amata dai suoi colleghi e, soprattutto, nessun bianco e nero serioso. Smith usa il colore, all’epoca una scelta rarissima e piuttosto disprezzata dagli artisti più engagé, introducendo nell’avanguardia le palette del Technicolor, anticipando di decenni quello che ancora oggi è uno standard universale nella fotografia di moda e non solo.

 

Nel 1963 esce il suo primo mediometraggio, Flaming creatures, una sorta di omaggio e parossistica parodia del cinema orientaleggiante su cui si era formato. Il film, che presenta molte scene di nudo, viene bandito in 22 dei 50 stati e proibito in quattro nazioni. Ma a Jack Smith la censura non interessa. Con infinita lungimiranza, capisce che chi si avvicina alla sua opera in cerca di cheap thrills non è degno dell’opera stessa. Il critico Jonas Mekas, che si era autoproclamato suo mentore e che aveva portato in giro la pellicola fino all’intervento delle forze dell’ordine, diventa per Smith l’incarnazione del sistema dell’arte: una macchina che crea fenomeni da baraccone e che fa di tutto per guadagnarsi l’attenzione di quel mainstream di cui dovrebbe essere negazione.

 

Il desiderio di Mekas di diffondere il film nonostante il concreto rischio di sequestro è per Smith un puro egotrip del critico che si sta appropriando del suo film per trasformarlo in un capro espiatorio, nel simbolo di un movimento, sottraendolo di fatto all’artista che l’ha creato. Nasce così in Smith il mito del critico-aragosta, un intellettuale-animale che si ciba di carcasse. Da quel momento in poi, Smith non realizzerà mai più un’opera conclusa, finita e – soprattutto – vendibile. Ogni altra sua opera, inclusi i film successivi, verrà costantemente rimontata, a volte anche nel corso delle proiezioni.

 

Dopo Flaming creatures, Smith decide di prendersi una pausa da New York. “Per l’estate mi sono trasferito in campagna, dove ho girato un adorabile film a colori, dalle tinte pallide, rosa e verdi, che sarà la massima espressione del pasty.” Con pasty Smith non intendeva semplicemente pallido, ma si riferiva alla pelle sbiadita dei Wasp, a quella che oggi chiameremmo white normativity, che è l’esatto contrario della meta ideale di Smith: l’exotica, l’esotismo delle mescolanze deformato dall’occhio innocentemente colonialista di un trentenne dell’Ohio.

 

Il risultato di quella gita fuoriporta fu Normal love, che in realtà richiese molto più di un’estate di lavorazione. Ci mise più di un anno per realizzare quell’idillio panico che nelle sue intenzioni non doveva affatto essere un film di fantasia, ma quasi un documentario escapista per ribadire che non si era costretti a vivere nell’orrore landlordista di una New York sporca, monotona e rettangolare. Un divertissement silvestre di tinte pastello, in cui sirene coperte di perle e travestiti fasciati di rose si alternano a vampiri precolombiani e a sequenza di danza tra i fiori.

 

Sul set è presente anche Andy Warhol, che riprende Smith mentre dirige e ne studia lo stile. “E’ l’unica persona che copierei” dichiara il padre della pop art, anche se in realtà lo copierà eccome. Warhol, infatti, infila nelle sue pellicole Smith e i suoi attori feticcio: primo fra tutti Mario Montez (nome d’arte che ricalca l’amata Maria), icona del travestitismo creata proprio da Smith che ne intravide subito il potenziale. Ma il rapporto tra i due artisti è difficile. Smith vuole essere una costante manifestazione di vita, mentre in Warhol vede una costante glorificazione della morte: le sue opere sono oggetto di valutazione di mercato prima ancora di essere terminate, l’artista è gallerista di se stesso e – di fatto – l’opera perde la sua aura benjaminiana prima ancora di essere riprodotta in serie, perché anche il pezzo unico diventa variazione su un tema costante, prevedibile e canonizzato all’origine.

La reazione di Smith alla poetica di Warhol è radicale: non farà più nulla di riproducibile, esponibile, vendibile, diventando di fatto uno dei padri della performance art. Se non faccio nulla, pensa Smith, se non lascio una traccia tangibile, nessuno potrà capitalizzare le mie intuizioni. Si potrà godere delle mie opere solo se si è presenti nel preciso istante in cui si manifestano. Nessuno potrà copiarle o trarne ispirazione, in questo modo potrò finalmente non fare scuola.

 

Nel 1970 Smith annuncia due anni di show gratuiti nel suo loft di Greene Street. Il pubblico arriva ogni volta intorno a mezzanotte, ma la performance non comincia mai prima delle 2 o le 3 di notte. Jack ritarda per sistemare costumi e altri dettagli, ma in realtà il temporeggiare è una chiave. Innanzitutto gli permette di selezionare il pubblico: se qualcuno ha la pazienza di aspettare tre quattro ore, allora è davvero motivato. Inoltre, l’attesa rappresenta un’ulteriore dichiarazione di indipendenza dal sistema dell’aragosta: non puoi diventare parte di una scena, di un movimento culturale, semplicemente fissando un appuntamento, presentandoti in un determinato luogo a una determinata ora. E quando qualcuno comincia a ironizzare chiedendosi: “Ma se non si presentasse nessuno, Jack si presenterebbe sul palco?”, Smith lo prende in parole. La prima volta che il loft resta deserto, Smith tiene uno spettacolo di sette ore.

 

Nel corso degli anni, alienarsi le simpatie della comunità artistica divenne per Smith la prova più inconfutabile della propria statura di artista. Nei suoi ultimi film, infatti, Smith interagisce solo con oggetti inanimati. Smette di essere (sempre che lo sia mai stato) un performer e diventa egli stesso una performance vivente. La sua dramatis persona lo ha completamente inghiottito e l’unico modo per essere testimone della sua produzione artistica è stargli vicino. Soprattutto quando stargli vicino diventa una sofferenza, perché vuol dire vederlo consumarsi in un letto di ospedale.

 

“Perché tutti questi portoricani stanno morendo e io no?” chiedeva ai suoi amici nel pieno dell’esplosione dell’Aids. In quegli anni, Smith frequenta il Variety Arts Theatre sulla Terza Avenue, che all’epoca era un cinema porno e un ritrovo omosessuale. E’ perfettamente consapevole del rischio di contagio: va in quel cinema proprio perché ci spera. E la malattia arriva. Morirà poco dopo, nel 1989. Vivrà la degenza in ospedale come un sogno. “Mi danno il cibo migliore che abbia mai mangiato in vita mia. Tre pasti al giorno!”. “Ma non ti annoi a stare sempre a letto?” gli chiedono gli amici. “Ma no, penso tutto il tempo a Maria Montez e poi mi rimetto giù. Nessuno sapeva stendersi su un letto come Maria Montez”.

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