Walter Siti (foto LaPresse)

Scoperte illuminanti in seconda lettura

Matteo Marchesini

Rileggere, a dibattito freddo, “Bruciare tutto” di Walter Siti

A dibattito freddo, anzi freddato, rileggo “Bruciare tutto”. E una cosa mi colpisce anche più che alla prima lettura. Dove parla dei bambini (non della pedofilia: dei bambini, gesti frasi immaginario), l’ispirazione di Siti lievita di colpo. Appena vengono in primo piano, sbiadiscono alle loro spalle gli intrallazzoni e i dialetti in sospetto di vetero-naturalismo, le bas-bleu, lo small talk eccessivamente aforistico, perfino il culturista revenant nel ruolo dell’ex ragazzino violato dal prete. Quando i piccoli se ne impossessano, il romanzo diventa a tratti un anaforico poema: “I bambini sono logici perché stanno provando la mente come si prova un coltello nuovo appena acquistato (…) I bambini non sono puri: fanno presto a sentirsi disperati e il demone dell’angoscia è essenzialmente impuro (…) I bambini sono esseri incompiuti: hanno bisogno di tutto, si annoiano di tutto e si lasciano corrompere da tutto”.

 

La prima apparizione infantile di rilievo è Mavi, il filippino che don Leo Bassoli incontra al doposcuola e che è quasi figura del futuro suicida Andrea. Il quale, a differenza di ciò che è stato detto con superficialità incredibile, e senza le attenuanti che possiamo riconoscere a Leo, non si uccide certo perché il sacerdote rifiuta le sue avance sessuali. In realtà Andrea, dopo uno straziante flusso di coscienza, si uccide perché “nessun luogo va bene per vivere”: muore come il Little Father Time di “Jude l’oscuro”, uno dei pochi libri che il protagonista conserva nella sua biblioteca. Il padre e la madre del bambino, un industriale rozzo e una pseudoartista, lo hanno usato troppo a lungo come un’arma nel loro gioco al massacro, che prevede botte in cambio di umiliazioni. “Geniussy”: così lei chiama Andrea, che si sente obbligato a recitare la parte dell’“intelligentone”. E lo è davvero; solo che questa intelligenza appare “una grazia sibillina, innaturale, dovuta alla necessità di adattarsi in un ambiente ostile – come certi pini o olivastri esibiscono artistiche silhouettes solo perché le mareggiate e l’avarizia del terreno li hanno tormentati e contorti”. I suoi giochi di parole, la sua rapidità nell’associare ambiti di senso distanti (quasi una trasfigurazione poetica dei calembour coatti di cui traboccano i libri di Siti) sono una sontuosa fuga dal dolore sproporzionato che gli adulti gli caricano addosso, e che lui assorbe e impara a fiutare da lontano “con antenne ultrasoniche”. Si potrebbe addirittura sospettare che il bambino abbia intuito l’episodio pedofilo nascosto nel passato del sacerdote, e abbia quindi modulato la sua urgente richiesta d’affetto su un’onda erotica.

 

In ogni caso, per difendersi dal gelo Andrea prova a stabilire corrispondenze segrete, a rimescolare l’ordine di un mondo insopportabile. Vive murato nella sua mente e così “mente monumentalmente” - sovrainterpreta, mistifica, inganna e s’inganna. In questo senso è il figlio, è l’“inverso e contraddittorio sosia” del protagonista come il protagonista lo è del narratore “Walter Siti”, qui pronto a ritirarsi in un cantuccio e a dividersi ironicamente la regia con sottodivinità che favoriscono il male per ignavia, e che sostengono la parte provvidenziale della Storia in una società in cui nessuno crede più alle sue leggi, ossia all’esistenza di rapporti decifrabili o di omologie tra i destini individuali e i destini collettivi. Perché è appunto in una mistificazione continua e dolorosa, è nell’impossibilità di uscire dalla propria prigione mentale l’inferno di Leo (che non si può accostare alla macchietta parisiana del “Prete bello”, come afferma assurdamente il risvolto di copertina, ma semmai, Rebora a parte, al Giulio morettiano di “La messa è finita”). Non sentendolo davvero consistente, né stabile o dotato di precisi confini, il prete non sa infatti liberarsi del suo io nemmeno per un attimo - non sa annullarsi nell’attenzione pura per la realtà esterna senza che subito il suo volto ricompaia a velargliela come il riflesso su un vetro. Allora l’autoanalisi diventa una trappola, una ruota da criceto, un regresso all’infinito su una strada dove non ci s’imbatte più nel bene, che può fiorire solo se si dimentica quel riflesso.

 

La coscienza di don Bassoli cresce come una pianta infestante, parassita. Invano tenta di afferrarsi per la coda, di mettere punti fermi: non può giustificarlo mai, così come niente può giustificare Dio quando si tenti di sottoporlo al vaglio della razionalità teologica. Il fatto è che è questa stessa coscienza il vero peccato, la patologia che nel prete amplifica e rivela la cattiva infinità potenzialmente sottesa a ogni esame cristiano. Tutto nella sua riflessione esponenziale diventa colpevole perché tutto si sdoppia: perché insieme al pensiero, alla parola o all’opera nasce l’occhio che mentre li condanna li assapora. Perciò “il piacere si annida anche nel suo contrario”, e “anche sentirsi inferiori a tutti è peccato d’orgoglio”: il compiacimento si nutre indifferentemente dell’esaltazione e della mortificazione di sé, che l’instabilità di Leo alterna nelle impennate e nei dirupi di un fulmineo moto bipolare. Non c’è umore o embrione di scelta che lui subito non porti mentalmente (e poi fisicamente) alle conseguenze estreme, si tratti del tentativo di umiliarsi nella routine parrocchiale o di quella tendenza compulsiva a mettersi alla prova nelle situazioni più rischiose che gli suggerirà la Siria come meta. Il sesso con Massimo, la macchia che Leo concentra sull’atto fisico e che invece ha soprattutto a che fare col successivo abbandono del ragazzino - qui il narratore cita quasi alla lettera un controverso scritto di Fortini su Pasolini - gli ha lasciato una sete insana di ordalie alla Lord Jim.

 

Ma la sua autoanalisi senza fine e il suo bisogno fanatico di riscattarsi implicano anche un ossessivo confronto con gli altri. Persino quando, dopo il suicidio di Andrea, il prete va a darsi fuoco, gli attraversa la mente un pensiero competitivo – “non posso essere più codardo di un bimbo di dieci anni”. E stendendosi sul letto del morto non è solo il comprensibile groviglio di sofferenza e rimorsi, ma è l’incapacità di non ricondurre tutto al proprio io che lo induce a mistificare la tragedia, a dirsi enfaticamente – Leo è il tribuno di sé stesso - che avrebbe dovuto cedere ai desideri di Andrea e perdersi per tenerlo al mondo: “quasi un anno fa, di questa stagione, ho messo a rischio la mia vita materiale per salvare un uomo che nemmeno conoscevo; ora non ho avuto il coraggio di donare la mia vita eterna per impedirti di morire”.

 

Come si diceva, per chiunque non sia accecato dai pregiudizi questa non è una versione attendibile dell’accaduto. E’ invece un commento utile a capire le simmetrie strutturali del romanzo. “Bruciare tutto” inizia e finisce con la morte di un bambino; inizia con un “sacrificio” riuscito e finisce con un “sacrificio” fallito, con una croce che non muta nulla (Leo ha trentatré anni). Il primo esercizio spirituale eseguito dal prete ha per oggetto il racconto di Abramo che per obbedire a Dio va a sgozzare Isacco; e in chiusura riecheggia una parodia orrenda di quella chiamata incerta, allucinante. Ma il libro intero è scosso da timori e tremori kierkegaardiani, cioè dal tema del contrasto tra religione e morale. Leo è “malato di infinito”: per lui la fede non è misura etica ma dismisura violenta, eccesso proteso sull’impossibile. Sacerdote divorato dal rimorso, e millennial che non ha mai visto il sangue, per essere sicuro di esistere deve avvertire la vertigine perversa dell’oltranza. Per lui Dio e il Diavolo sono inseparabili, legati come gemelli siamesi, e “un Dio che non punisce non è un Dio serio; senza angoscia non c’è misericordia”.
Questa Weltanschauung bassoliana proviene da una traslazione dell’ideologia che in altri libri e in altro campo ossessiona il personaggio chiamato Walter Siti.

 

Anche Leo è incatenato al miraggio di un assoluto, quello al quale l’alter ego sitiano dava i nomi di corpi eccedenti, sovrumani. “Solo nella finzione e nell’angoscia mortale c’è l’eco dell’unica patria a cui vale la pena di appartenere”, affermava già il narratore di “Scuola di nudo”. Un tale estremismo, con i suoi tratti masochisti e sadici, dipende in gran parte da una convinzione profonda che caratterizza quasi tutti i protagonisti di Siti: la convinzione di essere sempre esclusi dalla realtà, vista dunque come una cosa da afferrare con disperata ingordigia o come una forza esterna da cui farsi travolgere. Se né Leo né Walter sanno darsi un limite, aprirsi alla durata e alle regole di un singolo rapporto, è perché si sentono a loro volta amorfi, perché non sanno regolare il loro io né convivere con sé stessi senza torturarsi: sono imprigionati in un sentimento di irrealtà che rende irreale anche ciò che c’è fuori (solo l’irreale è illimitato). Mentre Leo non riesce a esaurirsi negli altri come secondo lui dovrebbe fare un prete, o un donmilaniano maestro, Walter non riesce a stare al quia di un amore concreto: e in “Bruciare tutto” il riuscitissimo don Fermo, il decano che sa quanto l’uomo sia inevitabilmente volubile, rivela nel suo umorismo al tempo stesso relativizzante e duro una saggezza non lontana da quella di un Gerardo, il compagno a cui la controfigura sitiana si arrende in “Exit strategy”.

 

Ma il Siti più classico, il Siti per intenderci dei culturisti, conosce l’Altro solo gonfiandolo e riducendolo a simbolo; senza questa droga, la sua unica alternativa è la depressione. La psicologia condanna lui e don Bassoli a una religione crudele: o un dio li trascina con sé e concede loro i suoi favori, il suo stupefacente sopraffattorio - magari con corredo di bondage - o ricadono nel niente; con l’ovvia differenza che in don Bassoli quel niente è il velo che copre un puntuale conto sospeso, il segnale che indica una strada interrotta e un meccanismo mentale strozzato dal rimorso, anche se forse già propenso per natura agli aut-aut tirannici.

 

Questo spiega perché la grande musa di Siti è l’umiliazione. La sua letteratura sale dalla vergogna purulenta, dal tempo vuoto e senza forma in cui l’io sprofonda quando non è divinamente innalzato oltre il limite. Il suo alter ego ha provato a riempire il vuoto di membra metafisiche, di riconoscimenti accademici e di libri non qualunque ma realisti, ossia concepiti come una rete che con l’alibi dell’aspra verità imbriglia e modella demiurgicamente la realtà dalla quale si sente escluso. In lui la “carenza d’essere” e la conseguente reazione sono legate a un’origine sociologicamente abbastanza precisa, a un’oscurità da “Jude”. “La miseria dei miei”, dei genitori di Siti, è quella di una piccola borghesia che ha ancora addosso i tic della campagna. E’ una classe che portandosi dietro lo spettro di una fame atavica resta “ossessionata dalla quantità” - una classe che avendo smarrito le radici etiche del mondo contadino e proletario non può tuttavia assorbire le abitudini di un ceto dirigente visto ancora da lontano. Di qui, anche, il senso di inguaribile innaturalezza che Walter condivide con Leo, e che è accresciuto in entrambi dal silenzio paterno e soprattutto dal rancore di una madre invasiva, immortale. Per tutti e due, seppure su piani differenti, la compensazione si traduce nella frenesia di fare, di conquistare posizioni, di attraversare esperienze borderline da contare e mostrare come scatti di carriera o cicatrici. Sintomaticamente, “Siti” può concedersi una tregua, spostando almeno in parte lo sguardo da sé verso l’esterno, soltanto dopo avere vinto le gare che più lo ossessionano: quando ha superato l’impotenza e “posseduto il mondo”, quando è stato riconosciuto come scrittore (non per caso gli è caro il Beckett che dice di aver avuto paura di morire prima di nascere). Ma in seguito, esplorando gli universi di finanza e religione, il narratore vi ritrova ancora l’Assoluto, ancora l’Altrove. Di nuovo, la percezione interiore d’irrealtà si proietta sull’ambiente circostante: e qui la sua ferita torna provvidenziale, perché lo aiuta a vedere meglio di altri l’illusionistica bolla dietro cui si cela il potere nella società contemporanea. “Non sono mai riuscito a distinguere l’irrealtà dalla vita superiore”, ammetteva il narratore in “Exit strategy”, dove dell’autofiction grandiosa e ingorgata dei libri maggiori è rimasta solo una musica perfetta.

 

All’ultima riga, quel narratore s’inginocchiava a pregare un “Chi” ignoto. Ecco: da lì, con uno scarto romanzesco, prende le mosse “Bruciare tutto”. Che è un libro imperfetto, a voltaggio intermittente, ma ci ricorda cos’è uno scrittore capace di affrontare con coraggio e intelligenza una materia centrifuga, riluttante; e in modo particolare, con i suoi brani ammirevoli come con i suoi scacchi, ci ricorda cos’è una prosa decisa a fare attrito con l’altro da sé e indisposta a ridurre lo stile a stilizzazione, cioè a un dispositivo che è a priori vittorioso (dunque perdente) solo in quanto non lascia avvertire i suoi bordi, in quanto non sa raggiungere quella necessità cogente che ha per rovescio il rischio d’errore, e che è una cosa sola con la spregiudicatezza di una letteratura disposta a indagare tutto perché non sa già tutto in anticipo. Del resto, a giustificare la lotta e a smentire chi vorrebbe liquidare il libro come kitsch dostoevskiano, basterebbe il ritratto di quel personaggio indimenticabile che è Andrea. E anche dove si avvertono stonature, non è sempre facile essere certi che non si tratti di dissonanze motivate. Rileggendo, più volte ho oscillato come l’io di don Leo. Mi è capitato per esempio davanti al caparbio, brutale tentativo sitiano di restituire la lingua “astratta” o televisiva di molti personaggi, compreso il don Bassoli delle omelie. Quanto funziona, questa mimesi dello stereotipo alfabetizzato e social, con le sue iperboli patetiche o da sketch, e quanto invece costringe l’autore a giri di frase che sulla pagina suonano goffi, letterariamente farraginosi o inamidati? Il genere romanzo - e questa sua incarnazione più che mai - si sporge di continuo oltre la ringhiera dell’estetica per cogliere una verità ancora non detta, a costo di tirar su anche le pedestri incrostazioni in mezzo a cui è sepolta: difficile dire cosa ne farà il tempo. Certo Siti è al solito consapevolissimo del problema, e per questo, credo, ha messo a punto una scrittura che è insieme bulimica e stenografica: vuole rappresentare il ruotare caleidoscopico di innumerevoli pezzi di vita, ma sa che se non scatta le sue foto en passant rischia ogni volta di venire trascinato a fondo dal loro peso. Sa, si direbbe, che libri così non possono essere se non il trattamento, il fantasma di un romanzo non scrivibile. E da questo punto di vista, vagliando la sua opera omnia, uno spitzeriano bravo potrebbe forse dirci qualcosa di interessante sull’uso insistito della lineetta, una specie di salto da fermo con cui l’autore sembra volersi tirar dietro le frasi analitiche e stipate di dettagli che la precedono, e muoverle con un “oh issa” un attimo prima che si congelino in blocchi irreversibilmente statici.

 

Dopo l’immaginario dei bambini, nella stenografia euforica e disperata di “Bruciare tutto” la cosa più convincente è la descrizione del paesaggio milanese, dove la miseria si annida negli interstizi di scintillanti architetture d’avanguardia. Siamo nella “fantascienza come natura”, in uno scenario che sembra fotoshoppato. Tra i suoi monumenti e le sue banche, tra i suoi condomini e le sue mense ribolle un melting pot senza redenzione. Le voci e i frame che ci scorrono davanti appaiono refrattari a qualunque unità estetica, sociale, morale, temporale, geografica: e “dove le lingue si mescolano scioccamente le anime non migliorano”, commenta l’autore. Questo paesaggio quasi legittima l’estremismo di Leo, che dal pulpito esalta i terroristici islamici per la loro capacità di sperimentare il rischio e dunque la fede, insomma di accettare ciò da cui i fedeli e lui stesso vengono a proteggersi in chiesa, chiudendo gli occhi davanti a una marginalità che più viene rimossa più si rivelerà terribile e spietata. “Ai pazzi e agli squilibrati si apre la possibilità di una copertura rivoluzionaria perché abbiamo trasformato l’idea della rivoluzione in una follia”, scrive qui Siti riassumendo le note sull’Occidente sparse nei libri precedenti. E in effetti la Milano di “Bruciare tutto” s’impone come il correlativo di una società avvolta dal brusìo ovattato e sinistro che precede l’esplosione. E’ una città trasfigurata da bagliori apocalittici e scorciata subito in metafora, come sempre i paesaggi sitiani. La sua materia di vetri, acciai e spurghi, di graffiti biblici e superfici simili a velluti, sembra costantemente accerchiata da un sole nero che sospende la tecnologia, la miseria e i discorsi teologici al di fuori del mondo: per parlare di Cristo e dell’assoluto, Leo e il suo creatore inseguono immagini astrofiche o zoologiche, stagliano la storia della salvezza sullo sfondo di galassie nelle quali non c’è più traccia delle misure umane. Ma la luce stellare danza sul buco nero in cui l’attrae un demiurgo malvagio. Nel suo libro sul cristianesimo, Siti dispiega ancora più chiara la consueta visione gnostica. Il mondo è il regno del Diavolo, e dunque ogni etica si dimostra insufficiente, grottesca, storpia: la salvezza può passare solo attraverso il gesto di chi ne vuota fino alla feccia il calice e fino in fondo lo descrive. E’ una visione già definita vent’anni fa in “Scuola di nudo”. Del romanzo d’esordio (dove si trova, sia detto in parentesi, l’aforisma “Ogni educazione è uno stupro”) viene parafrasata qui anche un’esplicita riflessione sulle forme dell’amore, e in particolare sull’opposizione tra eros e agape. Eros ci tira verso l’alto, chiosava il narratore del ‘94, agape verso il basso, “L’eros si nutre dell’illusione di poter diventare come dèi, per partecipare all’agape bisognerebbe credere nella trascendenza di un unico Dio, davanti al quale siamo tutti peccatori”. Ma poi quel Siti concludeva che la vera alternativa a entrambi è l’“arrendersi”. Qui Leo, dilaniato dalle due forze che lo spingono verso amori contrari ma ugualmente illimitati, informi, riesce ad arrendersi solo quando il fuoco libera un istante la sua anima, la alleggerisce e ne fa spirito. Ma allora ad accoglierla nel cielo di Malagrotta non è il ronzio del suo reboriano Dio zanzara - è il sorriso di Satana. Un falso martirio si è consumato in una falsa arena.

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