La verità, l'uomo e la finestra aperta sul cuore

Matteo Marchesini

Il tema della verità è al centro di “Maschere della verità. Il pensiero figurato dal Medioevo al Barocco”, un libro di Mario Andrea Rigoni uscito da poco per Carocci

Tutta la storia d’occidente è attraversata dall’idea che la verità si trovi oltre il linguaggio, e somigli a un uomo con una finestra aperta sul cuore. Verità, dunque, come sincerità, come nudità interiore che non si dice ma si mostra: semplice essenza platonica che scavalca le ambiguità delle parole e le loro variabili interpretazioni. Da questa idea nascono due filoni di ricerca: quello razionalista di chi sogna una lingua universale al riparo dagli equivoci (Leibniz, il primo Wittgenstein) e quello del suo rovescio mistico, ermetico, neoplatonico, che dal Rinascimento arriva a certo simbolismo moderno passando per gli emblemi seicenteschi (qui s’inscrive l’opposizione tra le innumerevoli riserve di senso del simbolo e la tendenziale univocità dell’allegoria, che separa immanenza e trascendenza).

 

Il tema è al centro di “Maschere della verità. Il pensiero figurato dal Medioevo al Barocco”, un libro di Mario Andrea Rigoni uscito da poco per Carocci. Osserva Rigoni che raggiungere la “nuda verità” significherebbe abolire il mondo umano, che è fondato sulla varietà, sui processi metaforici, sulla distanza dall’Altro. “Iddio ha potuto creare solo nascondendosi. Altrimenti ci sarebbe stato egli solo” diceva Simone Weil. Rimanere legati alle ombre cinesi della platonica caverna non è solo uno scacco, è anche l’unica condizione in grado di proteggerci da una luce che ci incenerirebbe: l’impossibilità di stare faccia a faccia con l’assoluto coincide con la possibilità stessa della nostra esistenza. Perciò l’occidente conosce anche una visione opposta, criticata e insieme “incarnata” da Platone: quella che cala la verità nel teatro, nel dialogo che “non conclude”, in cui l’apparenza non è il contrario dell’essenza ma il suo modo di manifestarsi, e in cui la luce implica l’ombra come la scena il retroscena.

 

Oggi entrambe queste concezioni vacillano davanti alla tecnologia, che coi suoi “troppi paradisi” invera e cancella caricaturalmente miti millenari. Secondo Byung-Chul Han, la rete trasforma la nuda verità in una “trasparenza” totalitaria che elimina luci e ombre, veli e disvelamenti, pubblico e privato. L’enorme mole di notizie e icone, in cui non si riesce a ritagliare un filo di senso, realizza l’Uno e l’Iperuranio come piatto, pornografico “inferno dell’Uguale”. La “prossimità digitale” elimina negatività, alterità, ostacoli. Cade ogni distanza, anche da sé: ci si perde come “persone” (etimologicamente: maschere), e non si accetta più il rischio dell’esperienza. Il mondo intero diventa soggettivo e intimo; ma questa intimità è già subito esposta in vetrina, è autopromozionale: l’illusoria libertà totale non si distingue dal totale controllo reciproco che esige un incessante make-up sulla “face” di ognuno. Questa finta onnipotenza dissolve gli ultimi argini al narcisismo di massa già proverbialmente analizzato da Christopher Lasch; e l’eccesso di input, di possibilità virtuali, finisce per deprimere. Molti dicono di voler abbandonare i social perché vi incontrano volgarità e orrori. Ma anche se tutti pubblicassero capolavori di raffinatezza non cambierebbe niente: l’essere umano non è fatto per sopportare tanta (ir)realtà. Esserne invasi rattrista, e al tempo stesso droga: se si distoglie lo sguardo sembra di perdere l’occasione della vita. La percezione dell’illimitatezza (di informazioni, masse, galassie, dongiovannismi…) porta sempre con sé l’infelicità, perché ci getta in un universo irriducibile alla nostra misura. Vale anche per l’architettura. Nicola Chiaromonte opponeva le vecchie città italiane, quinte teatrali dove i singoli possono vedersi, alle metropoli di spazi e palazzi smisurati, dove scorrono folle senza volto. Il gigantesco può essere sublime, ma come direbbe Savinio somiglia spesso a una faccia ottusa. D’altra parte, lo spiega bene Lasch nel “Paradiso in terra” riedito l’anno scorso da Neri Pozza, la modernità nasce appunto inseguendo un’espansione senza confini. Ai suoi albori, Leopardi ragionava sul desiderio dell’uomo, illimitato come il suo amor proprio e quindi destinato a cozzare contro una realtà di beni limitati che nega soddisfazione al piacere e alla gioia. Ora, a siepi ormai bruciate, l’“infinito” ci è dato come cattiva infinità, come parodia beffarda dell’assoluto; e così il “cuore a nudo”. Li sperimentiamo in corpo virtuale, schiacciati da un presente chiuso ai conforti del ricordo e della speranza. Ci salverebbe forse il teatro, l’umano limite del suo palco: ma ogni rappresentazione, cioè ogni distanza dall’immediatezza distopica, presupporrebbe credenze e riti collettivi che non condividiamo più.

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