Paul Cézanne, I giocatori di carte, Olio su tela, 1898

Lussi crociani e apprezzamenti sinceri

Matteo Marchesini

“Fermate”, la nuova raccolta poetica di Paolo Maccari, sa rendere sorprendentemente plastica una condizione esistenziale paludosa e informe, un disagio che s’irradia da un luogo indefinibile tra la mente e i nervi

Vorrei concedermi un lusso crociano: con un aggettivo perentorio e indiscutibile, dire semplicemente che “Fermate”, la nuova raccolta poetica di Paolo Maccari uscita da Elliot, è bellissima; e aggiungere che questo quarantenne di Colle Val d’Elsa mi sembra lo scrittore più raffinato, più consapevole della sua generazione (e non solo). A questo punto, immagino, dovrei confessare che Paolo è mio amico. Ma allora dovrei anche precisare che l’ho conosciuto dopo essere stato impressionato dal suo primo libro, “Ospiti”, che contiene versi stupendi sull’esperienza di servizio civile in un ospizio. Dal 2003 a oggi le sue liriche, i suoi saggi critici e le sue parole non hanno mai smesso di aiutarmi a rendere un po’ meno angusta la mia idea della letteratura, e di altre cose della letteratura molto più importanti. Comunque la mia opinione è trascurabile, di fronte alla stima che al giovane autore fu subito tributata da Giovanni Raboni e Luigi Baldacci.

  

Nei suoi versi, Maccari sa rendere sorprendentemente plastica una condizione esistenziale paludosa e informe, un disagio che s’irradia da un luogo indefinibile tra la mente e i nervi. Questa condizione implica un doppio scacco nei rapporti col mondo: aderire al suo brutale “così vanno le cose” appare al poeta una mossa falsa, sospetta come ogni superflua esaltazione dell’esistente, che serve a rimuovere una sua zona penosa e immodificabile; ma anche il gesto altero del rifiuto, anche l’isolamento gli sembra un’impostura, perché negli opachi compromessi mondani siamo invischiati tutti, e tutti ci scivoliamo dentro in un gioco senza fine di alibi e rimorsi, col torpore dolce e atroce di un’autocommiserazione ingannevole che forse è indistinguibile dall’autocoscienza.

  

Perciò Maccari vede le relazioni sociali e intime come un polipaio di dipendenze infide, una galleria di rifugi scavati per anestetizzare la lotta e in fondo la vita, che ritrova la sua pienezza solo in furtivi sussulti subito riassorbiti da una palude di vergogna, nausea e paura. Questa condizione da “slabbrati marsupi”, ultimi eredi ipernutriti e anchilosati di una specie in decadenza che schiva le catastrofi per pura inerzia, è poi amplificata in “Fermate” dall’entrata nell’“età di mezzo”, terra muta e spopolata di eventi, speranze, amici. Di tutto ciò dà una sintesi commovente e terribile la prosa finale: perché la raccolta ospita anche brevi “sillabari”, racconti tra i più perfetti di questi anni, che ricordano insieme Landolfi e Tozzi, ma dove la miscela di sarcasmo e umanità dolente è solo di Maccari. Nessuna scelta, insomma, è libera dalla cattiva coscienza; e nessuna offesa inflittaci dal mondo ci autorizza ad assolverci. Per questo scrittore dostoevskiano, malgrado le forze umane siano così deboli e la realtà così irredimibile, il peso del destino comune grava ogni momento intero su ogni nostra decisione. Se “tutti siamo colpevoli / vuol dire allora / che siamo tutti innocenti?”, ribatte amaro alla voce diabolica che lo invita a considerare i suoi oblii, le sue inadempienze come un fatto normale dell’esistenza, una fisiologica strategia adattativa senza la quale non si sopravvive. Questa indisponibilità alla conciliazione trova un corrispettivo anche nella forma.

  

Anziché adagiarsi sulle sue doti di abilissimo fabbro, Maccari ci sballotta tra un manierismo sontuoso ma slabbrato e versi sapientemente sfilacciati, aridi, in cui esalta il suo virtuosismo umiliandolo, riducendo a tiritera assurda la tentazione musicale per ritorcerla contro chi crede a un accordo tra l’io e il “tutto”: “Chi non sta bene non può portare bene. / Chi ama vuole il bene e il bene / si promana soltanto da chi sta bene. // Va bene: se parliamo di funzionamento / e amiamo ogni participio presente / mi denuncio malfunzionante. // La preghiera malata di un miscredente: / perché no? Lascio che mi inquini / la mente, fiacchi la volontà, inceppi / il dispositivo del sonno. / E’ una mia cruda necessità. // E’ vero: la morbosa agitazione / per un male che pure è parte della vita e si sa. / Perché la vita è tutto e tutta va presa / e i saggi ne colgono l’intima unità. // Perfetto: ne colgo intimamente l’unità, / richiamo alla mente ciò che è empio dimenticare. // Dopo tutto, / rimane che tu soffri, e appena esisti, / e io ti immagino, e furiosamente / sono con te e fuori è notte”.

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