Alla ricerca dell'esordio perfetto

Marco Archetti

Fino al 2010 al Premio Calvino arrivavano 300 testi, ora più del doppio. Merito di un lavoro rigoroso, capillare, di schede di lettura realizzate per tutti e non per i soli finalisti

Mario Marchetti, un presidente palombaro. Per intenderci: non che abbia direttamente a che fare con muta e pinne, questo signore di stanza a Torino, colto, garbatissimo e ubiquo ai casi come Ingravallo, ma ogni anno, da quindici anni – su trenta che il Premio Calvino ne ha –, si rimbocca le indefesse maniche, e armato dell’arpione del suo intuito (oltreché da un comitato di lettori qualificatissimi) si immerge nei sargassi dell’Esordio Inedito e torna a riveder le stelle dopo l’ormai consueta cinquantina di testi, letti dalla prima all’ultima sillaba. Il suo è uno sguardo vasto, subacqueo, periziale, e chissà se, alla fine, più interno o più esterno alla letteratura contemporanea, più intrinseco o più collaterale, più capace di cogliere i prodromi o più le manifestazioni del fenomeno narrativo collettivo. In altri termini: è un microscopio o un grandangolo, questo sguardo in causa, che ha contribuito all’individuazione di penne che sono diventate nomi e di storie che sono diventate titoli?

 

Fino al 2010 al Premio Calvino arrivavano 300 testi, ora più del doppio. Merito di una maggiore presenza social, certo, ma anche di un lavoro rigoroso, capillare, di schede di lettura realizzate per tutti e non per i soli finalisti. Perché è proprio qui che il Premio affina il suo mandato profondo, quello cioè di farsi scandaglio e filtro, trascendendo il senso ultimo di podio-incoronazione e svolgendo quel lavoro di selezione, indirizzo e critica che ormai non si intesta più nessuno. I testi respinti non vengono liquidati: se si intravedono prospettive, gli autori vengono seguiti e invitati a ripresentarsi l’anno successivo, e in più di un caso attendere un giro ha significato raggiungere la finale. Tornando a Marchetti, è evidente che un migliaio di inediti vagliati in quindici anni autorizzino una visione del mondo-su-pagina da ascoltare con attenzione. “Col finire del secolo”, ci dice, “sono venuti meno i testi che si definirebbero di neoavanguardia, e quelli delle tante esponenti di un femminismo non conclamato ma vissuto, che utilizzavano il mezzo letterario per fare il punto della loro vita. Il livello di consapevolezza costruttiva è migliorato, crescono i testi radicati regionalmente così come il disincanto, ed è aumentato il nostro rigore”.

 

Rigore che è sempre stato prassi, se si pensa che Enrico Castelnuovo, Cesare Garboli, Natalia Ginzburg e Cesare Segre – i componenti della giuria del 1986, anno della prima edizione – non consacrarono alcun vincitore, motivando che nessuna delle opere presentate riusciva a soddisfare i criteri qualitativi. Un dato non scontato: le due regioni che hanno dato al Premio il numero più consistente di vincitori sono il Veneto e la Sardegna, il che smuove tutto un fondale di considerazioni che meriterebbero ben altro sviluppo, sia su quanto la “sardità” tenga come valore letterario condiviso e (legittimamente o meno) evocativo in sé, sia su quanto risulti vivace un nord-est che ancora, in certi stracchi reportage, viene definito “profondo” nel senso di “tenebroso”, cioè (legittimamente o meno) sterile. La sterilità vera – quella sì – riguarda semmai l’umorismo, ormai irreparabilmente derubricato a favore del sarcasmo, sintomo forse del fatto che non ci si sente partecipi di ciò che si racconta, ma solo dell’impellenza di giudicarlo – il che non è esaltante. Immutata nel tempo, invece, la composizione dei partecipanti, al 60 per cento uomini. Il 40 per cento di donne ci insegna una cosa: saggezza è leggere più di quanto si scriva.

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