Writer, di Mario Mancuso via Flickr

Moralità e industria culturale

Matteo Marchesini

Due sono i tipi di scrittori ora in voga: da una parte c’è il naïf che “prende in parola” le mode culturali e le riduce all’assurdo, dall’altra c’è il censore che disprezza la cosiddetta “banalità imperante” senza rendersi conto di farlo con un linguaggio altrettanto banale

Quella che una volta si chiamava industria culturale tende ora a promuovere soprattutto due tipi di scrittori, o perfino – per usare un’altra parola frusta – di intellettuali. Tipi speculari, complementari, complici. Da una parte c’è il naïf o lo spudorato (non si sa mai bene) che “prende in parola” le mode culturali e le riduce all’assurdo, ossia le amplifica in forme che sarebbero solo ridicole se intorno esistesse ancora un ambiente permeabile al senso del ridicolo, e quindi in grado di denunciare il vestito nuovo dell’imperatore. Dall’altra parte, invece, c’è il censore che disprezza la cosiddetta “banalità imperante” senza rendersi conto di farlo con un linguaggio altrettanto banale, e di ridurre all’assurdo l’highbrow novecentesco. Questo tipo rispetta solo ciò che è accademicamente ratificato, e mentre sferza le “masse” non s’accorge di essere un frutto della massificazione peggiore, quella scolastica, che induce a concepire la Cultura come uno status symbol. Decenni fa, quando si prendevano ancora le misure di un’industria che adesso non è più misurabile perché coincide con l’intero orizzonte, si sarebbero forse fissati i due tipi, e i fenomeni di cui sono sintomo, in qualche minima moralità francofortese. Proviamoci ugualmente. Cosa dimostra, il primo, se non che nessun argine critico o satirico può ormai ostacolare la sua affermazione? La moralità che lo riguarda, rovesciando Marx, potrebbe allora suonare così:

 

SENSO INVERSO. La società integralmente mediatizzata dissolve l’ironia di cui in superficie abbonda. Come accade in politica (Grillo, Trump) anche nel contesto culturale e letterario la caricatura ridicola o la parodia involontaria di oggi s’impone come il sinistro potere di domani. Tautologica, sfrontata, la realtà si presenta una prima volta come farsa, e una seconda come possibile tragedia.

 

La nascita del secondo tipo, rappresentante esemplare delle ultime generazioni iperscolarizzate, cresciuto in quelle aule-serre sui cui effetti atrofizzanti ci ha detto tutto Ivan Illich, potrebbe invece essere raccontata attraverso una parabola dal titolo apertamente adornian-horkheimeriano:

DIALETTICA DELL’ILLUMINISMO. Mentre lavoravano duramente la terra per mettere da parte un po’ di risparmi, i nonni si affidavano inermi alle streghe di campagna, guru e guaritrici. Grazie a quei risparmi, i loro figli oltrepassarono la quinta elementare, presero qualche diploma, acquistarono un appartamento in paese o in città, ed ebbero il tempo d’interessarsi alla vita politica o addirittura di confidare nel progresso, mentre investivano il denaro del nuovo welfare su bambini che volevano precocemente sapienti, sanissimi, pieni di hobby. Questi bambini diventarono adulti mentre le sicurezze socio-economiche venivano a poco a poco erose dalla crisi. Esibirono presto un estremismo politico a costo zero, e inseguirono con spietato zelo la carriera accademica, o più in generale qualunque lavoro, anche malissimo pagato, in cui potessero far sfoggio dei loro annosi studi umanistici, convinti con inconsapevole razzismo che la scolarizzazione renda superiori, e che si possa essere specialisti di letteratura o teatro, di pedagogia o di scienze delle comunicazioni come lo si è di ingegneria edile. Più inermi e meno intuitivi dei nonni, più bovaristi dei padri, si affidavano intanto ciecamente a Badiou, a Zizek o al Negri-Hardt. Ovviamente, come spiega SENSO INVERSO, queste moralità sono inutili. Che restino almeno agli atti.

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