Foto Sam via Flickr

Mai fidarsi degli incipit fiammanti

Marco Archetti

Chi ben comincia, buon per lui, ha cominciato, ma il romanzo (come l’arte) è lungo. Ne riparliamo almeno a metà dell’opera

Io ormai sono contro l’incipit altamente scolarizzato. Cosa mi succede non lo so, sto proprio soccombendo a quest’eritema intellettuale, ieri andavo su e giù in cucina e mi ripetevo “tu, tu, proprio tu! Ti stai imbozzolando nel reazionariato militante brigata Carducci”, così ecco che qui lo dico, lo ammetto, lo strillo, è più forte di me: io ormai osteggio il perfetto placé dell’inizio narrativo e ringhio al barbaglio un poco meretricale della prima frase, con la sua pretesa, fintamente disinvolta cioè ricattatoria, di incendiare gli ormoni del lettore-passante. Io, ormai, classifico gli incipit.

 

I peggiori sono i migliori, quelli che irrompono in cerca di ovazione, rombanti come una fuoriserie tutta spettacolosi lapilli motoristici. Ma attenzione, perché assai subdoli sono anche quelli sintetici, portatori di lampo epigrammatico, numeri primi dell’asserzione angolare che punta al centro della nostra epifania. Non parliamo poi di quelli del genere parola, punto-a-capo, altra parola, punto-a-capo. (Tacerò, per decoro, di quelli casual, finto svagati, magari privi della forza di gravità di una qualunque punteggiatura). Quanto al tono, alé!, ce n’è per tutti: quelli che sentenziano e quelli che borbottano, quelli che propalano e quelli che sussurrano, quelli che la sparano e quelli che la trattengono, ma a considerarli ben bene hanno tutti, tutti, una cosa in comune: la postura. Quella di chi ormai ci ricatta con l’eccesso di consapevolezza. Sì, ci chiedono di fidarci, questi incipit perfetti da scuola di scrittura. Ma io no, non mi fido. Promettono e promettono, questi incipit squisiti – elusivi o estroversi, allusivi o introiettati, proiettivi o balenanti – ma poi mantengono?

 

Tra l’altro, fateci caso: negli ultimi tempi ci sono in giro solo incipit efficaci. Una volta non era così. Una volta giravano brutti incipit. Incipit che non arrivavano mai in orario. Incipit noiosi. Incipit negligenti. Incipit non febbricitanti. Incipit ritorti, anche, oliati poco o non oliati, ma era giusto, no? la macchina si stava avviando, era ancora fredda, nessuno pretendeva che così non fosse. “Il sole invernale non era che un pallido chiarore, lattiginoso e stanco, dietro le coltri di nubi sulle vie raccolte della città; i vicoli chiusi dai frontoni delle case erano bagnati e percorsi dal vento, e di tanto in tanto vi cadeva una specie di grandine molle, né neve, né ghiaccio”. Thomas Mann, Tonio Kröger: che bell’incipit, indugiante il giusto, uno scorcio descritto senza false promesse. “Verso la fine dello scorso mese di ottobre, un giovane entrò nel Palays-Royal proprio quando, secondo la legge che tutela una passione essenzialmente vantaggiosa per il fisco, aprivano le case da gioco”. La pelle di zigrino, Balzac: che meravigliosa intelligenza non premeditata. “Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato”. Caro, carissimo Rigoni. “Apertura 14,30. A quell’ora io entravo, da bambino, nella caverna dei giganti, al cinema”. Emilio Tadini: che visione fiammeggiante, La lunga notte. Insomma, io ormai sono contro il precetto per cui la prima frase debba contenere tutto ed essere fulmine, torpedine, miccia, scintillante bellezza, fosforo, fantasia, molecole d’acciaio, pistoni, rabbia, guerra lampo e poesia – troppe cose, e o sei De Gregori o sei sul Titanic. E aggiungo: basta bellurie che intortano. Chi ben comincia, buon per lui, ha cominciato, ma il romanzo (come l’arte) è lungo. Ne riparliamo almeno a metà dell’opera.

Di più su questi argomenti: