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Debenedetti e gli abissi del moderno

Matteo Marchesini

Una raccolta di saggi del critico-scrittore che, per tutta la vita, si arrovellò intorno alla crisi che nel Novecento ha investito la rappresentazione della figura e delle avventure umane 

“Perché l’arte, e in particolare la narrativa, pure avendo raggiunto una capacità di esprimersi davvero inaudita, moltiplicato i suoi poteri conoscitivi, portate così lontane le frontiere dell’ineffabile in un prodigioso affinamento dei suoi mezzi, offende poi il volto dell’uomo?”. La domanda riassume bene il leitmotiv dei saggi di Giacomo Debenedetti raccolti in “Il personaggio-uomo”, uscito postumo nel 1970 e ristampato oggi dal Saggiatore con una intelligente premessa di Raffaele Manica.

 

Per tutta la vita, Debenedetti si arrovellò intorno alla crisi che nel Novecento ha investito la rappresentazione della figura e delle avventure umane. Sperava che fosse superabile, ma sapeva che non si può tornare indietro, e che l’artista, per non finire come il dispersivo Swann proustiano, deve affrontare la discesa agli inferi dando un nome anche ai fantasmi più mostruosi e informi. Con le sue sinuose acrobazie esegetiche, Debenedetti provò quindi a riportare alla luce della civiltà gli abissi del moderno senza addomesticarli. Sia nello stile asiano della giovinezza sia in quello attico della maturità, si mosse su un sottilissimo filo sospeso tra autobiografia, estetismo e psicologia del profondo, senza trovare casa né nella confessione, né nel “romanzo” né in un “metodo”.

 

Secondo Berardinelli somigliava un po’ a un dandy, un po’ a un rabbi e un po’ a uno scienziato; ma la risultante era uno scrittore che trovava il suo genere più congeniale nella critica. E questa critica, lo ha spiegato Pampaloni, non aveva come fine primario né la storicizzazione né il giudizio di valore: piuttosto l’immersione in un’inchiesta dagli esiti imprevedibili, dal cui corso le rivelazioni affiorano luminose un istante e risprofondano nel gran mare dell’essere. Al centro rimane il concetto di “destino”, che Debenedetti lavora ai fianchi per sciogliere nel chiarore dell’intelligenza una mai domabile superstizione – il sospetto che la verità coincida con un oroscopo minaccioso e insondabile.

 

Ambiguamente, Montale ha sostenuto che a modo suo aveva sempre ragione: come a dire che al di là delle opinioni professate, attendibile appariva la sua “voce”; però era una ragione di figlio ansioso, non di padre olimpico come quella del Lukács ritratto da Thomas Mann. Il nostro maggior critico inseguiva febbrilmente uno spazio dove le angosce moderne potessero riscattarsi in un’arte a misura umana. Poco tempo prima della sua morte, da cui ci separa un mezzo secolo esatto, Fortini lo vide commuoversi davanti a questa leggenda cassidica su quattro generazioni di rabbini: “Il primo conosceva nei boschi un luogo dove accendere un fuoco, dire preghiere e impetrare così un bene per le creature. Il secondo non accendeva più il fuoco e si limitava alle preghiere. Il terzo sapeva solo recarsi in quel luogo del bosco; e questo tuttavia era sufficiente ad ottenere la grazia richiesta. Ma quando di nuovo, un’altra generazione dopo, Rabbì Yisra’èl di Rischin doveva anch’egli affrontare lo stesso compito, se ne stava seduto in una sedia d’oro, nel suo castello, e diceva: ‘Non possiamo fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere e non conosciamo più il luogo del bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia’. E il suo racconto da solo aveva l’efficacia delle azioni degli altri tre”. Il filo di questa narrazione capace di redimere il passato, Debenedetti lo aveva intravisto da ragazzo divorando la Recherche in un altro bosco, quello di Champoluc.

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