(foto LaPresse)

Il Risiko delle direzioni di Rai1 e Rai2 rivela la malattia della tv di stato

Salvatore Merlo

Le vicende intrecciate di Dallatana e Fabiano. Tetto degli stipendi, burocrazia, politica, strapotere degli agenti televisivi

Roma. E che vengano sostituiti tra pochi giorni, tra una settimana, o a dicembre, come pare che accadrà, poco cambia, perché raramente come stavolta l’avvicendamento di due direttori di rete, quello di Raiuno e quello di Raidue, descrive l’immutabilità di foresta della Rai, il suo cosmo non completamente statalista ma nemmeno liberale, il suo vizio di nascita incestuoso con la politica, la sua esistenza burocratica, lenta e pesante, i suoi opachi giochi di potere interni che insieme al pettegolezzo, come un veleno, rendono inane qualunque moto dell’anima (e della fantasia). E allora ecco le vicende di Ilaria Dallatana e Andrea Fabiano, i direttori di Raidue e Raiuno, nominati a suo tempo da Antonio Campo Dall’Orto, in quella breve e infausta stagione in cui per un attimo era sembrato possibile liberare la Rai da sé stessa e dalle sue malattie, i due direttori di cui tanto si parla in queste ore a Viale Mazzini, l’uno, Dallatana, che viene dal privato e che adesso vorrebbe tornarci esprimendo tutta la sua stanchezza per un mondo, quello della tivù di stato, in cui la vera vita si svolge dietro le porte, e l’altro, Fabiano, che invece nella Rai c’è nato e cresciuto, che forse non ha brillato per gli ascolti (eppure non è andato nemmeno malissimo), ma non è amato dal suo direttore generale Mario Orfeo, e soprattutto – ecco il veleno del pettegolezzo Rai – ha un nemico formidabile e potentissimo che ne pretende la rimozione da mesi: Lucio Presta, lui che assieme a Beppe Caschetto è il più cospicuo degli agenti televisivi italiani. 

   

Vent’anni da produttrice indipendente, responsabile di produzione delle reti Mediaset, poi fondatrice di Magnolia, quella del “Grande Fratello” e “L’isola dei famosi”, è da prima dell’estate che Ilaria Dallatana, direttrice di Raidue, perso Campo Dall’Orto che l’aveva assunta e vistosi ridotto d’un tratto il compenso a 140 mila euro per effetto del “tetto degli stipendi”, ripeteva di essersi scocciata delle pressioni politiche, degli attacchi ai programmi, delle regolette impiegatizie da ufficio del catasto che in Rai trasformano il lavoro autoriale in una faticosa corsa a ostacoli. Perché mai dovrebbe restare a Viale Mazzini Dallatana, che ha mercato e può tornare nel settore privato, dov’è apprezzata, guadagna di più e lavora meglio? E insomma tutto, come si vede, in questa storia, rivela l’involuzione polverosa dell’azienda. Dai tempi di Mauro Masi la Rai è infatti equiparata alla pubblica amministrazione di cui ha immediatamente assunto e sublimato, da gigante ministeriale qual è, tutte le procedure bizantine e i noti e torpidi difetti, gli appalti Consip, le “call”, il job posting, l’Anac di Raffaele Cantone e pure lo spettro sempre incombente della Corte dei conti, il collegio di togati di cui in Rai hanno così paura che nessuno quasi vuole firmare più nulla.
Il direttore di una rete Rai passa il 70 per cento del suo tempo a dirimere grane contrattuali che nascono intorno al progetto di un programma, e Dallatana, abituata alla rapidità funzionalista del settore privato, s’è improvvisamente trovata proiettata, e per uno stipendio molto più basso, in un mondo i cui tempi e la cui esistenza sono regolati dalla “Spp”, l’acronimo da brivido che scandisce la stiracchiata vita dell’azienda e che sta per “Scheda proposta programma”. Si tratta di un mostro da ufficio protocollo che deve passare dall’approvazione di sette diversi dipartimenti aziendali, dalle direzioni di produzione fino a quelle dei contratti, per poi finalmente approdare alla scrivania del direttore generale che mette la firma e che solo a quel punto permette che si possa iniziare non a fare il programma – attenzione – ma a pensare “come” fare il programma. Bisogna dunque proprio immaginarsi una rete televisiva che, su 365 giorni di lavoro, ogni due giorni, ogni qual volta s’ipotizza soltanto di poter iniziare una nuova trasmissione, deve tirare fuori una benedettissima “Spp” che comincia a girare di ufficio in ufficio, passa da un timbro all’altro, torna indietro, s’inceppa, richiede olio e telefonate, preghiere e urla, finalmente va avanti, e se tutto funziona dopo due mesi di labirintiche montagne russe arriva alla segreteria del direttore generale.

  

Dunque, come ben si vede, la vicenda di Dallatana rivela il male oscuro della Rai, le sue contraddizioni sempre sottoposte, come nel caso del tetto degli stipendi, alla volubilità del vento politico, che prima spandeva allegramente a piene mani e adesso asseconda gli umori di pancia del populismo trionfante, “tutti più poveri / più poveri tutti”. Senza mai però trovare misura e dimensione di mercato. Perché la cifra della Rai è la sua eternità di foresta, sempre uguale. Come per la storia di Fabiano, il direttore di Raiuno che potrebbe andare via, per scelta di Mario Orfeo, il direttore generale, ovviamente, ma con i vendicativi uffici – e in questa malizia di cui tutti sanno e parlano c’è sempre la malattia Rai – di Lucio Presta, l’agente di Bonolis e di Benigni, della Clerici e di Belen, che incolpa Fabiano di aver sospeso ad agosto il programma di Paola Perego, sua moglie.

  

E se infatti non hai più uomini di prodotto ma solo funzionari il cui lavoro è compilare schede “Spp”, se quei pochi che hai li spingi via con il tetto degli stipendi, se la televisione non la pensa più nessuno perché la cosa più importante è stare attenti a Cantone, è ovvio che il potere di chi sta fuori dall’azienda, come gli agenti, e gestisce una competenza o un talento, acquista un fortissimo potere anche all’interno. Per questo ci vorrebbe una riforma della personalità giuridica della Rai, ma ai partiti non conviene. E allora Dallatana va via (e Fabiano forse lo rimuovono).

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.