Perché cinema e tv italiane non riescono a produrre un Homeland nostrano

Federico Tarquini

Troppo peso agli autori e la mancanza di una vera industria

Riflettere oggi sull’industria culturale, specialmente sui settori dell’audiovisivo, significa in primo luogo partire da una costatazione: non è mai esistito nella storia dell’uomo un periodo così ricco d’immagini. Ogni giorno milioni di persone si scambiano foto tramite WhatsApp, mandano mail, caricano immagini o video sui social network, guardano un film o una serie televisiva su un numero crescente di schermi, fissi e mobili. Tutte queste pratiche, ormai assolutamente ordinarie, hanno favorito la rinnovata capacità delle industrie dell’audiovideo, specialmente quelle anglosassoni, di raccontare con intelligenza la nostra epoca senza rinunciare a incassi strabilianti. Se si cerca una prova di quanto rilevato, basta collegarsi a youtube. Prima della visione di un qualsiasi contenuto caricato su questo social media è possibile imbattersi nel trailer del film L’ora più buia. La scena si apre con Winston Churchill – interpretato dall’ottimo Gary Oldman, già eccellente vampiro nel Dracula di Coppola – nell’atto di accendersi il famoso sigaro. Ne segue un breve video dal ritmo serrato, in cui l’esaltazione dell’eroica e narcisa figura di Churchill, abbraccia senza forzature il pathos crescente delle prime fasi della Seconda Guerra mondiale. Il tutto culmina nel celebre discorso alla camera dei comuni del buon Winston, prima di sfumare nella fatidica scritta “prossimamente al cinema”. Risultato: probabilmente un ottimo film, che racconta con un registro spettacolare una delle pagine più significative della storia europea, esalta il divo di turno e permette, già con il trailer fruito in rete, di creare un’esperienza piacevole e arricchente per il pubblico. In poche parole, il Cinema.

 

Pensando, non senza sadismo, alle vicende nostrane, la visione di questo trailer, o di una qualsiasi stagione di Homeland o House of Cards, non può che far sorgere alcuni interrogativi: saremo mai in grado in Italia di raggiungere, se non quello standard produttivo, almeno quel livello autoriale? Perché qui si è faticato, e si fatica, nel realizzare un prodotto audiovisivo capace di raccontare il vissuto collettivo di questo paese con intelligenza e senso dello spettacolo? Senza sbagliare di molto, i puri di spirito risponderebbero a questa domanda con un laconico “Andreotti non fumava il sigaro e Renzi non va a mangiare costolette di maiale in qualche bettola di periferia come il buon Frank Underwood”. In realtà le ragioni di questa impasse sono imputabili a due tendenze che storicamente hanno caratterizzato il comparto italiano dell’audiovisivo: l’eccessiva importanza assegnata agli autori, e la capacità del sistema stesso di nutrirsi di tutti gli ambienti culturali, da quelli alti a quelli bassi, da quelli governativi sino a quelli avanguardisti, senza mai trasformarsi definitivamente e modernamente in una vera industria. Il primo elemento ha fatto sì che lo sguardo sulla storia collettiva di un luogo, materia costitutiva di qualsiasi prodotto culturale generalista, coincidesse con gli occhi di un singolo uomo, con la sua soggettività, subendo fatalmente la parzialità di quell’unico punto di vista. La seconda tendenza ha contestualmente permesso agli autori di non essere mai realmente incalzati dalla dura lex della produzione industriale che, in ultima istanza, pone i desideri e le abitudini dei pubblici come fattore determinante. La somma delle due tendenze, pur considerando gli indubbi e talvolta eccellenti livelli raggiunti dalle produzioni cinematografiche e televisive italiane, ha impedito a questo settore culturale di essere con costanza un luogo di elaborazione dei conflitti del presente. E ciò per l’Italia non è un problema di second’ordine.

  

Già sul finire degli anni Cinquanta Edgar Morin notava come l’uomo immaginario intrattenesse ovunque un rapporto d’identificazione e proiezione con le immagini. Da molte decadi l’audiovisivo è dunque un elemento basilare per la vita quotidiana della persona, proprio perché crea attraverso le immagini un piano entro cui questa si proietta per elaborare la propria identità, i propri conflitti, i propri desideri e in generale il proprio vissuto. Quello che sinora, tranne qualche fortunato caso, ha impedito la realizzazione di prodotti audiovisivi all’altezza di questo compito è stata proprio la mancata comprensione del significato profondo del rapporto tra rappresentazione audiovisiva ed esperienza dei pubblici. Questo rapporto, come accennato, è completo se il contenuto audiovisivo permette ai pubblici di “soggiornare” nella storia fruita. Con ciò s’intende la concreta capacità dell’audiovideo di stabilire una reale dialettica tra la storia raccontata e il quotidiano dei pubblici. Solo se per lo spettatore l’esperienza della visione diviene materia viva con cui costruire il vissuto che precede e segue alla visione stessa, il prodotto audiovisivo riesce realmente a svolgere la sua funzione culturale.

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