Luigi Di Maio e Bruno Vespa (foto LaPresse)

Di Maio da Vespa e la democrazia totalitaria della scatoletta di tonno

Guido Vitiello

"Il Ventennio degli intellettuali" di Giovanni Belardelli

Ogni volta che vedo un grillino in un talk show – l’ultimo è stato Luigi Di Maio a “Porta a Porta” – mi torna in mente la scena di un vecchio film con Louis de Funès, “Le Grand Restaurant”. E’ quella in cui Monsieur Septime, l’occhiuto direttore del ristorante che fa anche da occasionale maître di sala, illustra la ricetta del soufflé di patate a un cliente tedesco; e a seconda di come fa oscillare la testa in qua o in là, delle ombre cinesi gli disegnano sul volto il ciuffo spiovente e i baffi a spazzolino di Hitler. Cos’era Di Maio quella sera, un cameriere affabile e sollecito, preoccupato solo del cittadino cliente che ha sempre ragione, pronto a porgergli un menu assortito che annoverava il fegato alla Almirante, lo spezzatino di Berlinguer e la tradizionale bouillabaisse delle correnti democristiane? O era piuttosto un caporaletto mellifluo, segretamente roso dal risentimento, ansioso di salire i gradi gerarchici della brigata di cucina da sguattero a mastro di sala? La questione di per sé non ha alcun interesse, e se c’è una cosa che non perdonerò mai ai Cinque stelle e ai turlupinati che li sostengono è l’avermi costretto a occuparmi di loro, ma tant’è.

 

Raccomando ai miei frati weimariani, ordine mendicante per via dei troppi libri comprati, di investire qualche altro obolo – diciannove oboli, per l’esattezza – in una lettura utile a capire che cosa potrebbe prepararsi nelle opache cucine della Casaleggio Associati. E’ un capitolo di un libro di Giovanni Belardelli, “Il Ventennio degli intellettuali” (Laterza), intitolato “Il fantasma di Rousseau: il fascismo come democrazia totalitaria”. L’assalto fascista al parlamentarismo, ricorda Belardelli, attinse a molti arsenali, nell’ambizione di superare il discrimine desueto tra destra e sinistra. Alcuni argomenti li pescò dalla tradizione democratico-radicale, e capitava di trovare in bocca ad autori fascistissimi l’elogio di Rousseau e l’idea del nuovo regime non già come negazione ma come superamento e inveramento dei valori del 1789. Ecco allora, nelle riviste del Ventennio, la contrapposizione tra una “sovranità del popolo” che si esaurisce “nel gittare ogni dato numero di anni una scheda in un’urna e poi chi si è visto si è visto”, e la “vera e compiuta democrazia” fascista, promotrice di una “vitale immedesimazione” nello Stato che passa, tra le altre cose, per le manifestazioni di piazza e la sanzione plebiscitaria (di decisioni già prese altrove).

 

O anche, in un gioco di ombre cinesi: “La stella polare che ha sempre guidato il nostro programma politico è la volontà del popolo”; perché “o voi immettete il popolo nella cittadella dello Stato, ed egli la difenderà; o sarà al di fuori, ed egli la assalterà”. Con la solita gente asserragliata nella scatola di tonno del Parlamento “non vogliamo avere nulla a che fare, (…) né con quelli che si dicono di sinistra, né con quelli che si dicono di destra”. Solo così potremo creare “una democrazia accentrata, organizzata, unitaria, nella quale democrazia il popolo circola a suo agio”. Le citazioni, alternate, provengono dal cosiddetto discorso dell’Ascensione di Mussolini, 1927, e dal post di sabato scorso sul blog del capocomico.

 

Fratelli weimariani, stiamo più a lungo possibile nel nostro refettorio, dove i pasti sono frugali ma decenti; perché qualunque cosa si prepari in quelle cucine segrete, ha tutta l’aria di un pasticcio immangiabile.

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