Luigi Di Maio ospite di "In mezz'ora"

Sorteggio diretto

Massimiliano Trovato

Di Maio vuole estrarre a sorte i direttori del Tg1. Ma perché non fare così con i candidati del M5s?

Roma. Se il tratto fondamentale della vecchia politica è la capacità di cianciare per ore senza formulare un’idea che sia una, gli homines novi della Terza repubblica meno due si distinguono per un’inventiva debordante. Prendete Luigi Di Maio. Interrogato dal Corriere della Sera su tutto lo scibile umano, sforna un metodo infallibile per delottizzare – pardon: derenzizzare – la Rai: per scegliere, poniamo, il direttore del Tg1, “serve un meccanismo meritocratico, magari ricorrendo a un sorteggio tra i migliori del paese”.

 

Sorvolando sulle debolezze della proposta specifica – la peculiare idea di merito e l’inevasa necessità d’evidenziare i “migliori” senza ricadere nel gorgo partitocratico – colpisce il richiamo al sorteggio, meccanismo istituzionale oggi ampiamente in disuso per l’assegnazione d’incarichi pubblici – con l’eccezione dei posti nelle giurie popolari – ma dalla storia gloriosa. L’esempio più immediato, naturalmente, è quello della democrazia classica ateniese: i 500 membri della boulè – per come disegnata alla fine del VI secolo a.C. da Clistene – erano estratti a sorte tra i candidati presentati dalle dieci tribù, i cui rappresentanti si alternavano nella conduzione dei lavori come pritani e, a propria volta, sorteggiavano di giorno in giorno un epistate, investito dei pieni poteri e della custodia dei sigilli.

 

In Grecia, questo congegno presidiava l’uguale libertà di tutti i cittadini, a cui per converso si richiedeva di partecipare in prima persona alla vita pubblica; una strada analoga fu intrapresa in Italia, a partire dal Trecento, ma per esigenze ben diverse, e cioè per prevenire l’eventualità di conflitti tra fazioni contrapposte. A Firenze, per esempio, erano scelti con sorteggio i membri della Signoria, sia pure partendo dalle liste compilate dalle corporazioni: i nomi dei candidati, superato un ulteriore vaglio di legittimità, venivano custoditi in apposite borse di cuoio, da cui gli accoppiatori attingevano per l’estrazione.

 

Ancor più emblematico il caso di Venezia: la nomina del doge richiedeva un’articolata sequenza di sorteggi e votazioni. Protagonista della procedura era il balotìn, un bambino di otto-dieci anni, tenuto a selezionare trenta dei 500 membri del Maggior consiglio, che dalle sue mani ricevevano una sfera di legno – la balota, appunto – riportante la dicitura “elettore”. Con il medesimo sistema, ventuno dei trenta prescelti venivano scartati; i nove rimasti eleggevano quaranta consiglieri, poi ridotti a dodici per sorteggio; quei dodici ne eleggevano venticinque, poi ridotti a nove per sorteggio; quei nove ne eleggevano quarantacinque, poi ridotti a undici per sorteggio; questi ultimi eleggevano i quarantacinque che procedevano all’indicazione del doge con una maggioranza di venticinque voti.

 

Venendo ai giorni nostri, hanno cavalcato l’idea di selezionare i componenti delle Camere per sorteggio due personaggi assai diversi per estrazione e orientamento come Michele Ainis e Antonio Martino: il costituzionalista, con l’intento di porre un limite ai potenziali eccessi dell’attività legislativa rappresentativa; l’economista, per arginare il rischio che la corsa all’elezione o alla rielezione esponga i politici a fenomeni di corruzione e clientela. Motivi, questi, che dovrebbero stare a cuore a Di Maio e ai suoi sodali, in quanto espressione di una logica compatibile con la loro pretesa tensione alla moralizzazione della politica e al ridimensionamento delle prerogative della classe dirigente.

 

Ma, allora perché, non compiere un passo ulteriore e fare del Movimento 5 stelle il partito del sorteggio? Perché Di Maio non estende la prospettiva della propria cura per il Tg1 ai malanni della compagine grillina? Le due tipiche obiezioni all’istituto del sorteggio investono la rappresentatività e la competenza dei personaggi selezionati con tale metodo. Sono forse più rappresentativi i candidati supportati online da un numero di votanti che non basterebbero a incoronare un rappresentante d’istituto? Quanto alla competenza, sarebbe persino ingeneroso rievocare le gesta di questi carneadi privi delle più basilari nozioni giuridiche ed economiche, vergini di cultura istituzionale, proni a spettacolari strafalcioni e sensibili alle opinioni più irrazionali gemmate dal sottobosco di internet. Quale laboratorio migliore per testare le virtù del sorteggio? Certo, si tratterebbe di smontare quell’impalcatura di garanti, direttori, codici interni e contratti che ingessa –pena l’espulsione con ignominia – l’attività degli aderenti al movimento. Si tratta anche di rinunciare alle prelazioni sulle poltrone di un prossimo governo a cinque stelle. Ma non è un piccolo prezzo da pagare per ridare davvero il potere ai cittadini. La matematica grillina è spesso imperscrutabile: davanti al balotìn, invece, uno vale sempre uno.

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