Un'immagine dell'ultima puntata di Report dedicata alla Coca Cola

Quel pregiudizio anti industriale che c'è in tutte le trasmissioni tv

Stefano Cianciotta

Uno studio di Centromarca sulla guerra televisiva contro l’ortodossia del consumo che punta a screditare il cattivo di turno senza tutelare e valorizzare l’attività di impresa

La contraffazione alimentare fa perdere alle produzioni tipiche italiane 4 miliardi di euro ogni anno (fonte Confagricoltura), una montagna di denaro che si traduce, stando al Censis, in oltre 20 mila posti di lavoro in meno. Il business del fake food è dilagante, mette a rischio la salute dei consumatori, danneggia le aziende produttrici e la credibilità del nostro paese. Eppure il dibattito televisivo sull’alimentazione si caratterizza da sempre per un forte indirizzo anti industriale con l’obiettivo di screditare il cattivo di turno, puntando l’indice contro questa o quella azienda, questo o quel prodotto, senza invece tutelare e valorizzare l’attività di impresa e contribuire a una informazione corretta.

 

La tv, insomma, ha preferito orientare le preferenze degli italiani prediligendo una via morale e ideologica alla educazione nel piatto. Anche i primi format televisivi come Di tasca nostra e Mi manda Lubrano, istituiti con finalità di servizio, si sono poi connotati per un forte taglio antindustriale. La deriva giustizialista del paese ha preso il sopravvento anche in tv, e in questa guerra manichea senza esclusione di colpi al “cattivo” non resta che analizzare in profondità cosa sta accadendo per mettere in campo una strategia di difesa credibile, che ristabilisca un principio di equilibrio.

 

Centromarca è l’associazione italiana dell’industria di marca, punto di riferimento per le più importanti industrie che producono beni di largo consumo alimentari e non alimentari. Aziende che valgono circa il 65 per cento del mercato e che firmando i loro prodotti vivono di reputazione, qualità, innovazione e sostenibilità. Attraverso l’analisi condotta dall’Osservatorio di Pavia, Centromarca ha esaminato le trasmissioni tv nelle quali i temi alimentare e antindustriale continuano a essere prevalenti. Ne viene fuori una saga dei pregiudizi e della retorica, con un uso della lingua italiana che implicitamente vuole richiamare ad una guerra santa contro l’ortodossia del consumo (“Cannibali” è il titolo della prima puntata della serie tv “Animali come noi” condotta da Giulia Innocenzi).

 

“Il monitoraggio permanente e l’analisi costante di una molteplicità di programmi televisivi dedicati ai temi dell’industria di largo consumo, con particolare riferimento a quella alimentare ma non solo, si legge nella ricerca, induce a delineare un quadro preciso e a rilevare delle tendenze ben definite, fatte pur le debite eccezioni. Nello specifico, si ravvisa un atteggiamento di pregiudizio nei confronti dell’industria, si coglie una predominanza di fattori culturali soggettivi degli autori, che finiscono per pre-orientare e predeterminare le tesi e i contenuti presenti nei programmi. Vi sono alcuni tratti molto ricorrenti, come la Natura sempre buona in sé, mentre è l’intervento trasformativo (industria) che la corrompe; in linea col punto precedente, una visione naif del mondo agricolo e della piccola impresa e una visione apocalittica del mondo industriale. Le argomentazioni delle critiche avanzate al prodotto industriale, all’interno di un contesto predeterminato, sono molto spesso accompagnate da elementi di sussidio, che possono compromettere l’obiettivo di spiegare e informare, come la presenza di musiche suggestive (sbeffeggianti o drammatiche quando si parla di industria; liriche e rassicuranti quando al centro vi sono contadini e artigiani); associazioni di immagini (fumi, insetti, sporcizia per l’industria; igiene e “colori della natura” per gli altri); accostamento semiotico dei termini (chimica, veleni, cancro per l’industria; natura, salute, benefici per gli altri) e di eventi (incidenti, ma solo quelli industriali); montaggio di interviste seguite da commenti (l’ultima parola, spesso una battuta dell’autore, annulla, rende vano se non ridicolo quanto detto dall’intervistato, se esponente dell’industria)”.

 

Anche gli attuali driver di consumo (qualità dei prodotti, trasparenza, etica, tutela ambientale, sostenibilità), sono declinati come se fossero esclusivo patrimonio del mondo agricolo, omettendo spesso di informare sugli sforzi e gli investimenti delle imprese per perseguirli. Questi driver, invece, costituiscono dei punti di forza oggetto di ingenti investimenti da parte delle aziende per tutelare il valore della propria reputazione, anche con iniziative importanti di responsabilità sociale, il cui trend non a caso è in crescita. “Ogni tanto spunta qualcuno che continua a vedere la realtà attraverso le lenti delle ideologie ostili all’economia di mercato e all’attività di impresa”, osserva Luigi Bordoni, presidente Centromarca, “sospettose verso efficienza e meritato successo. Sono residuati delle forze che nel Novecento hanno dominato il nostro paese, creando nel tempo un contesto inospitale e ostile alle imprese, con incrostazioni che ancora oggi scoraggiano gli investimenti e impediscono crescita, creazione di lavoro e benessere”.

 

E se le associazioni di categoria commissionano ricerche e studi per tutelarsi, multinazionali come Eni e Coca-Cola investono su strategie di comunicazione innovative per contrastare gli strali di trasmissioni cult come “Report”, così potente da distruggere perfino Antonio Di Pietro, il leader maximo del giustizialismo italiano (sul declino politico di Di Pietro molto ha pesato l’inchiesta nella quale si chiedeva conto all’ex giudice di Mani Pulite della proprietà degli immobili iscritti in bilancio nell’Italia dei Valori). Il mondo dell’industria, quindi, rinnova le proprie strategie con linguaggi e strumenti al passo con i tempi, come dimostrano #EnivsReport e #NienteDaNascondere, gli hashtag creati da Eni e Coca-Cola per polarizzare le discussioni e spostare il focus dalla tv. Del resto il successo dei No Tav e dei No Triv era stato favorito anche dalla inadeguatezza delle aziende nel comunicare. Sulla capacità di rinnovare la narrazione e la comunicazione del lavoro (anche in un’ottica di Industria40) invece, si giocherà la grande sfida del prossimo futuro.