Parliamone Sabato a "Parliamone sabato"

La Rai, la Perego, e la politica. Storia di un pazzo cortocircuito tivù

Salvatore Merlo

Sessismo, politica, scontri di potere e nevrosi twittarola a viale Mazzini. Parlano Lucio Presta e Massimo Bernardini

Roma. C’è il cortocircuito della parola “sessismo”, che è un tic e una nevrosi, una specie di botola del luogo comune nella quale si precipita senza più riaversi. Ma c’è anche il cortocircuito della politica che insegue i social media, e con identica grevità di linguaggio: “Chiudetele la trasmissione”, “mandate via Paola Perego”, urlano i parlamentari, né più né meno come fa l’ultimo degli imbecilli su Facebook, che è un po’ come dire “in galera” o “tagliatele la testa”. E c’è poi anche il cortocircuito opportunista dei piccoli, anzi piccolissimi giochi di potere dentro la Rai, che è sempre la solita palude solforosa, dunque ammorbante, in cui è facile perdersi come nelle nebbie dell’Ade. Insomma discorrere sullo scandalo che non c’è, di come la trasmissione del sabato pomeriggio di RaiUno sia stata chiusa con un blitz poliziesco dei vertici aziendali, è qualcosa di più (o forse qualcosa di meno) di un’immersione forzosa nei fermenti della tivù stupida e tendenzialmente volgare del pomeriggio italiano. Al telefono lo ammette persino lui, Lucio Presta, impresario, potente manager dei divi televisivi, l’agente di Paolo Bonolis e di Amadeus, di Roberto Benigni e di Antonella Clerici, un uomo il cui codice – è calabrese, di Cosenza – risiede in quella che si potrebbe definire la caratterizzazione della schiettezza. “In quella fascia ci sono dei caveat precisi”, dice allora Presta, lasciando trasparire il suo coinvolgimento personale, visto che Paola Perego, oltre che sua cliente è anche sua moglie.

 

“Lì non puoi parlare di politica, non puoi fare la cronaca, non puoi occuparti di attualità, e in più non c’è budget. Insomma non puoi parlare di nulla. E allora diventa tutto un salottino forse stupidotto. Ma quella fascia è stata ‘pensata’ così dalla Rai. E l’altra sera non era diversa dal solito”. E il sessismo? “Ma se persino chi condanna la trasmissione poi ammette di non averla nemmeno vista? Anche la presidente Maggioni non l’ha vista, l’ha detto lei stessa, mentre ne chiedeva la chiusura. Viene condannata una schermata che la trasmissione, dichiarandolo, aveva ripreso da un sito internet. Una specie di decalogo demenziale che in studio veniva commentato con ironia. Guardi, dia retta a me, questa è una storia in cui il ‘corpo delle donne’ non c’entra niente. E mi dispiace che ci sia andata di mezzo Paola, che al contrario ha sempre avuto molta attenzione nei confronti delle storie di violenza sulle donne”. E quello a cui allude Presta, senza però spingersi fino a dirlo, è tutto un intreccio di potere, di nomine, di posti da sbloccare e di contese interne all’organigramma della Rai che forse ha contribuito, assieme alle incursioni twittarole della politica, a questo intreccio parossistico in cui, come spesso capita, non c’è quasi niente di serio. O di vero.

 

“C’è una evidente sproporzione tra il fatto in se e la reazione, che è stata twittarola e politica insieme”, dice allora Massimo Bernardini, conduttore di Raitre, di “TvTalk”, lui che oggi è forse uno dei simboli del servizio pubblico in Rai: colto, garbato, civile, senza però essere mai pettinato, insomma una specie di panda, di razza semi-estinta nella televisione contemporanea, quel formicolante palcoscenico di urla e vaffa che accompagna, solletica, enfatizza e accarezza per il verso giusto il malumore italiano dalla mattina alla sera, non solo alla Rai ma anche a Mediaset e nella rete di Urbano Cairo, La7. “L’ho riguardata al millimetro la trasmissione di Paola Perego. E l’ho trovata un normale pomeriggio di stupidaggini ad alta voce. Niente di più e niente di meno”, dice lui.

“Si discuteva delle ragioni che spingono molti uomini italiani, avanti con gli anni, a fidanzarsi con donne dell’est Europa, a volte con le loro stesse badanti. E lo si faceva con un certo, svagato cattivo gusto, anche superficiale. Mentre l’argomento è invece interessante, ha delle ragioni e delle implicazioni che riguardano la nostra società (pensiamo alla solitudine della terza età, o alla società che diventa anaffettiva). Tutto invece in quella trasmissione si ricomponeva in una conversazione da quattro soldi, forse non appropriata al dovere di servizio pubblico… va bene. Non spetta a me giudicare, può darsi che quel tipo di trasmissione non sia da servizio pubblico. Però mi permetto di dire questo, e cioè che il controllo editoriale non è, e non può essere un blitz di polizia. Forse serve ricostruire, ripensare la sensibilità e lo stile del servizio pubblico, più che fare delle scelte drastiche come quella di chiudere una trasmissione che fino al giorno prima andava bene a tutti. Il controllo editoriale si fa tutti i giorni, parlandosi, interrogandosi sulla scaletta, tra autori, collaboratori capistruttura e persino con i direttori di rete, su dove alla fine si andrà a parare. Sono invece sconcertato dal modo in cui la politica entra a gamba tesa sulla Rai, persino sui contenuti, e basandosi su dei tweet, ovviamente di pancia, imprecisi, e sulle delle agenzie pomeridiane. Se il presidente della Camera Laura Boldrini arriva a intervenire su un piccolo errore della tivù perché ha letto dei tweet è chiaro che c’è un problema. Quella sulla trasmissione di Paola Perego doveva essere una scelta interna all’azienda, e invece ora nessuno ci toglierà dalla testa l’idea che la Rai è intervenuta su input della politica. Ancora una volta. La politica dovrebbe essere più discreta, e distante. Anche perché in Rai ogni sospiro della politica diventa una tempesta, purtroppo”.
E così, mentre Bernardini pronuncia queste parole, ci si chiede se sia più grave (oscena?) la stupidità della trasmissione di Paola Perego, che non è Dahrendorf ma nemmeno Barbablù, o l’imbellettamento domenicale di Massimo Giletti, che sempre su RaiUno intanto, l’altro ieri, ospitava Rosario Crocetta nella sua “Arena”, macchiettizzando la Sicilia, come ha scritto Paolo Mieli sul Corriere della Sera, permettendogli cioè di maledire la situazione generale in cui versa l’isola, come se Crocetta non ne fosse in gran parte la causa, di questo disastro. Consentendogli insomma di “lanciare – ha scritto Mieli – le sue invettive da un talk-show che va in onda, la domenica pomeriggio, sulla tv di stato. Bizzarrie italiane a cui il resto d’Europa non è avvezza”.

 

Che differenza c’è? Anzi: cos’è peggio? Le urla contro Perego o il silenzio su Giletti? E ci si chiede allora – e a ragion veduta – perché tanta indignazione, e foga, sulla Perego, precipitata nella botolola nevrotica e vaga del “sessismo” (che è come dire “femminicidio”, ma in modo ancora più inafferrabile), anche da parte della dirigenza Rai. Anche solo la metà di questa forza indignata, se usata contro la politica che si ingerisce nelle vicende della televisione pubblica – se usata contro il Consiglio di amministrazione lottizzato o contro quell’istituto tardo sovietico chiamato Vigilanza – avrebbe potuto forse liberare la Rai dalla sua maledizione ancestrale, dal giogo che la uccide. E invece niente, shh, silenzio: uno show di cautele, delicatezze, tossettine e piedi di piombo. “Quella su Paola è una indignazione facile”, suggerisce allora Lucio Presta, che il gioco del potere lo conosce, anche perché lo pratica da anni, e non è certo una mammoletta, né uno stinco di santo, ma uno che ha fama di duro, anzi di spietato, lo chiamano “il boss”. E d’altra parte l’indignazione per il “sessismo” non costa niente. Né ai twittaroli vaghi, né ai politici furbetti, né all’azienda paludosa. Offre, anzi, a tutti, la confortevole occasione di gettare un sassolino lì dove lo buttano tanti altri. “Ed è una indignazione anche un po’ interessata. In partenza. Che con il corpo delle donne, ripeto, ha poco a che vedere”.

Così viene dipanandosi, in controluce, tutto un racconto carsico e complementare alla luogocomunite del “sessismo”, una trama sospesa tra vero e verosimile, e che riguarda il conflitto tra Antonio Campo Dall’Orto, il direttore generale, e Monica Maggioni, la presidente della Rai. Tutta una battaglia che viene da lontano, che riguarda la riorganizzazione interna, una partita in stallo da mesi e che tocca i capistruttura, e in particolare Raffaella Santilli, responsabile del cosiddetto “day time” di Raiuno, responsabile dunque anche del programma di Paola Perego. La presidente Maggioni vorrebbe sostituirla con Luigi Rocchi, mentre il direttore generale Campo Dall’Orto (con il direttore di RaiUno, Andrea Fabiano) vorrebbe sostituirla con Daniele Cerioni… E insomma tra domenica sera e lunedì mattina, la scivolata di Paola Perego, di cui non si era accorto quasi nessuno, viene ripresa, rilanciata dal direttore di Raiuno che, dicono i maliziosi di Viale Mazzini, immagina così di poter definitivamente liberarsi di Santilli e riorganizzare il “day time”. Sennonché la cosa sfugge di mano a tutti: le agenzie la rilanciano, Twitter impazzisce, la schermata idiota col decalogo delle ragioni per le quali gli uomini italiani preferiscono le bionde dell’est fa il botto di rilanci sui social, la parola “sessismo” fa drizzare i nervi dei giusti e dei forsennati, cominciano dunque ad arrivare i commenti dei primi parlamentari, dei capi, capetti e caporali della Vigilanza, e poi persino della terza carica dello stato, Laura Boldrini, alle 7,41 di lunedì mattina. Il carico da novanta: “Questa vergognosa lista – trasmessa durante la trasmissione ‘Parliamone sabato’, in onda su Raiuno – è offensiva sicuramente nei confronti delle donne…”. E boom! Boom! Fino al noto epilogo. “Questa storia dimostra una cosa, tra le altre”, dice Giovanni Minoli, che la Rai la conosce, la ama (e dunque a volte forse la odia). “Nessuno si occupa di cosa va in onda. Se il programma viene chiuso, e l’azienda ritiene che la colpevole sia la conduttrice, mi chiedo: ma l’azienda che controllo editoriale esercita? Forse nessuno. E si capisce allora che i capi della Rai ritengono colpevole Presta, che è evidentemente, come l’altro grande agente delle star televisive, cioè Beppe Caschetto, è più potente di un direttore di rete. Così lo puniscono licenziando la signora Perego”. E forse davvero è tutto un po’ alla rovescia, a Viale Mazzini, contorta metafora d’Italia.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.