Mark Zuckerberg a Barcellona durante il Mobile World Congress

Il problema delle fake news sui social media è strutturale

Eugenio Cau

Se la Silicon Valley promette di regolamentare se stessa, mente. Ma il legislatore non riesce a fare di meglio

Roma. Come ogni campagna elettorale che si rispetti nell’èra dei social media, anche quella italiana, che pure non è ancora iniziata, è stata colpita da un suo scandalo sulle fake news. Per ora lo scandalo è controverso e le connessioni tra i vari attori sono labili, ma la storia delle ultime elezioni o referendum in occidente (Brexit, Stati Uniti, Francia, Germania, Catalogna) ci ha insegnato che dovunque la posta in gioco è alta arriva immediata la nube tossica delle fake news, con le pagine Facebook ispiratrici d’odio, i bot su Twitter, gli scandali prefabbricati, i meme politici. Gli attori sono vari e hanno interessi disparati: c’è chi usa le fake news per guadagno politico interno, ci sono le potenze straniere che perseguono da Mosca disegni di destabilizzazione geopolitica, ci sono i teenager slavi che cercano semplicemente di fare soldi con la pubblicità su articoli acchiappa clic. La tipica crisi sulle fake news si svolge in alcuni atti predefiniti: si inizia con le inchieste giornalistiche che svelano la portata del problema; i politici (di solito quando è ormai troppo tardi e il danno è fatto) ne prendono coscienza e si mobilitano con proposte di legge e punizioni draconiane mai messe in atto; i social media, che sono il punto terminale di ogni critica, dopo aver consentito le scorribande dei peggiori pirati si difendono dicendo: noi non c’entriamo, faremo meglio, siamo già all’opera per migliorare, ci riformeremo.

    

In quella piccola crisi accelerata che i media italiani hanno vissuto in questi giorni, siamo già arrivati al punto tre. Mentre, con più serietà e più metodo, gli americani hanno dedicato mesi di indagine al cosiddetto Russiagate, hanno atteso le conclusioni delle agenzie d’intelligence, hanno aperto commissioni d’inchiesta alla Camera e al Senato, da noi il processo sommario si è svolto tutto sui titoli dei giornali, e domenica sulla prima pagina di Repubblica c’era già la giustificazione di Facebook: “Vigileremo”. Cosa significa esattamente?

    

E’ già stato detto in più di un’occasione: il problema delle fake news sui social media è strutturale. Facebook, Twitter e in parte Google hanno un modello di business fondato sul ricavo pubblicitario e sulla viralità che non solo non limita, ma in un certo senso incentiva la diffusione di bufale, e godono nei loro rispettivi campi di un monopolio di fatto che rende facile approfittarsi del sistema: con poche migliaia di dollari, un agente russo può raggiungere con il suo messaggio 126 milioni di americani.

    

Quando dunque Facebook e gli altri promettono di autoriformarsi, di vigilare e di aver appreso dalle lezioni del passato c’è un’evidente contraddizione: si tratta di aziende di enorme successo che stanno promettendo di minare proprio il modello di business che le ha rese grandi, e di spendere soldi per farlo.

   

All’(auto)riforma dei social media il Financial Times ha dedicato ieri un lungo articolo, partendo da una frase che Mark Zuckerberg, fondatore e ceo di Facebook, ha pronunciato all’inizio di questo mese presentando gli ottimi risultati fiscali della sua compagnia: investiremo così tanto nella sicurezza (e nella lotta alle fake news) che questo “avrà un effetto significativo sui nostri profitti”, il che vuol dire: abbiamo così tanto a cuore il problema che siamo pronti a perderci soldi. Facebook ha promesso di assumere (o di prendere come collaboratori) diecimila persone per migliorare il controllo dei contenuti e di investire in tecnologie che aiutino a svelare bot e post malevoli. E’ una spesa notevole, ma Zuck ha fatto i suoi conti. Se davvero i legislatori dovessero mantenere le loro promesse e iniziare a regolare il mercato pubblicitario sui social media i costi sarebbero infinitamente più elevati.

    

Dunque per ora ogni annuncio di autoriforma della Silicon Valley deve essere interpretato in questo modo: promettere di cambiare per non cambiare davvero. Si vede bene negli Stati Uniti, dove il dibattito è molto più maturo che da noi e si svolge sul filo della stessa dicotomia: i social media promettono grandi riforme interne ma fanno lobby feroce contro ogni proposta di legge che cerchi di riformare il mercato dall’alto. In questo hanno gioco facile. La mano pesante del legislatore non riesce a districare un tema tecnicamente complesso come quello della regolamentazione dell’informazione su internet, e spesso finisce per fare più danno di prima. In tutto l’occidente, le proposte di legge finora presentate sul tema o mettono a rischio la libertà d’espressione o sono semplici palliativi.

 

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.