Dara Khosrowshahi (foto YouTube)

La redenzione di Uber e della Valley si chiama Khosrowshahi

Alberto Brambilla

Manager, outsider del circolo tech, anti-trumpista, iranian-americano. Chi è il sostituto del “cattivo” Kalanick

Roma. Dopo un anno drammatico, tra cause nei tribunali di mezzo mondo e scandali interni per molestie sessuali, la ricerca di un successore di Travis Kalanick sembra conclusa. Domenica scorsa gli azionisti di Uber hanno scelto come nuovo amministratore delegato Dara Khosrowshahi, capo della piattaforma di viaggi Expedia. Khosrowshahi non era sotto i riflettori ma, secondo diverse fonti, è di certo candidato a guidare la società nota per l’app che ha disarmato la corporazione dei tassisti e che quest’anno punta a quotarsi a Wall Street.

 

Khosrowshahi – che dovrà accettare l’incarico – è descritto come la figura di compromesso nel duello interno a Uber. Diversamente dai candidati di più alto profilo come Jeff Immelt, decano di General Electric in uscita, e Meg Whitman, presidente e ad di Hewlett Packard, storico colosso dell’informatica, era passato sotto traccia. Sarà perché – come dice il sito specializzato TechCrunch – la sua Expedia non ha sede nella Silicon Valley ma a Bellevue, Washington, e la scelta è stata accolta con sorpresa dai media. Un’altra motivazione è che in Uber c’è stata una lunga battaglia che ha condotto alle dimissioni forzate a giugno del disgraziato Kalanick. Kalanick, co-fondatore di Uber, era inviso a una buona fetta di azionisti, possessori del 40 per cento del capitale, tra cui First Round Capital, Lowercase Capital, Menlo Ventures, Fidelity Investments e l’attivissimo fondo Benchmark. Per guidare l’azienda una fazione interna voleva Immelt, con la clausola di isolare ancora di più Kalanick – il quale resta azionista e membro del board. Mentre un’altra fazione, la Whitman. La persona di Khosrowshahi ha unito un consiglio di amministrazione a pezzi. Ma chi è costui?

 

Chiamato da Expedia
al termine
di un processo
di selezione che
ha scartato Jeff Immelt (ex GE) e Meg Whitman (Hp), Khosrowshahi dovrà risollevare
la reputazione di Uber dopo gli scandali che hanno intaccato l'aura buonista dei colossi tecnologici. E quotare l'app dei Taxi insidiata dall'auto-robot di Google

Khosrowshahi, nato in Iran nel 1969, si trasferì negli Stati Uniti quando aveva nove anni per scappare dalla Rivoluzione islamica e si stabilì dallo zio a Tarrytown, lungo il fiume Hudson. Conseguì un diploma di ingegneria elettrica presso la Brown University, del circolo della Ivy League, nel 1991. Il rifugiato iraniano che veste casual – jeans e camicia a quadri sono la sua tenuta d’ufficio – rappresenta una ulteriore conferma della tendenza a vedere salire al comando di big tecnologici immigrati di seconda generazione, dopo Sundar Pichai, indiano-americano, capo di Google dopo Larry Page e Sergey Brin, o Satya Nadella, indiano naturalizzato americano, capo di Microsoft dopo Steve Ballmer. Non stiamo però parlando del prototipo del manager della Silicon Valley, dove ultimamente si inventano molte cose “cool” ma poche davvero utili. Per giunta la reputazione della Valley è declinante, Uber ci ha messo del suo. Le accuse di abusi sessuali che hanno trascinato Kalanick e alcuni dirigenti hanno dimostrato che le società tecnologiche non sono oasi paradisiache, ma somigliano a molte altre. Facebook e Google sono perfino considerate dei monopolisti di snodi nevralgici di internet e sono state addirittura paragonate dai media a “robber baron” ottocenteschi. Khosrowshahi ha preso le distanze da quel mondo. “Sono diverso da molti di questi giovani ceo, in quanto io non sono il fondatore… io sono quello che chiameresti un ‘manager professionista’”, disse riferendosi ad Expedia, fondata da Rich Barton, e poi scorporata da InteractiveAmericaCorp (Iac), società fondamentale nella carriera del prossimo capo di Uber.

 

Khosrowshahi ha 48 anni – non è un giovincello con la sua barba sale e pepe – ed è considerato un dirigente preparato e risoluto (in questo senso non si discosta da Kalanick). Ha guidato Expedia per dodici anni portando la piattaforma di prenotazione di viaggi e hotel a crescere a livello mondiale. Una sua eventuale partenza ha depresso il titolo Expedia, ma la compagnia sembra in una posizione solida per continuare l’espansione nel settore degli affitti di case con HomeRental. Il dirigente ha iniziato come banchiere d’affari ad Allen & Co. prima di entrare nella conglomerata Iac, gigante dei media e dell’intrattenimento (che ha in portafoglio l’app per incontri amorosi Tinder) dalla quale è stata appunto scorporata Expedia nel 2005. Iac è stata essenziale per Khosrowshahi: lì è diventato un protetto del ricco e potente mogul Barry Diller, l’uomo negli anni Ottanta ristrutturò la Twentieth Century–Fox, alla quale Rupert Murdoch si avvicinò per procedere all’acquisto solo dopo la sua cura visti i segnali di una vitalità ritrovata.

 

Diller e Khosrowshahi condividono le passioni politiche, entrambi sono feroci critici del presidente Donald Trump. “Penso che sia solo uno scherzo. Speriamo che sia finita abbastanza presto – ha detto Diller – Inizia in modo inspiegabile e finirà in modo inspiegabile”. Insieme ad Amazon e Microsoft, Expedia – che ha nel board Chelsea Clinton, figlia della candidata democratica sconfitta a novembre – è stata tra le prime aziende di tecnologia a sostenere gli sforzi per dichiarare incostituzionale l’ordine esecutivo di Trump che impediva l’immigrazione da otto paesi musulmani, Iran compreso. “Con questo ordine esecutivo, il nostro presidente è tornato al gioco di corto respiro. Gli Stati Uniti potranno anche essere un paese meno pericoloso come luogo dove vivere, ma saremo certamente visti come una nazione più piccola, una di quelle con un pensiero ombelicale e non proiettato al futuro, reazionaria e non visionaria”, ha scritto ai dipendenti in una e-mail. Su Twitter il manager aveva poi invitato i ragazzi a viaggiare per capire il mondo, facendo uno spot a Expedia. Quando invece Kalanick esultò perché i tassisti del Jfk scioperarono contro il muslim ban facendo la fortuna (effimera) di Uber che poteva approfittarne ottenne il risultato opposto: fu aspramente criticato e l’app venne boicottata, perdendo così popolarità a favore della rivale Lyft per la prima volta.

 

Al di là della politica, il viaggio in Uber non sarà una passeggiata rilassante per il manager venuto dalla Persia. Riparare la reputazione è solo un parte del problema. La questione più rilevante è capire cosa vuole – e può – diventare Uber, oltre ai servizi taxi su berline nere, e come si preparerà alla quotazione in Borsa dal momento che i fondi azionisti che l’hanno lanciata sembrano impazienti di passare all’incasso. Uber è bloccata in una guerra con Google sul furto della tecnologia per le auto senza pilota e c’è una causa legale in corso. Anche Khosrowshahi aveva avuto problemi con Google per come Expedia usa il motore di ricerca. La sua era inoltre tra le società che denunciarono la compagnia di Mountain View alla Commissione europea, denuncia che ha poi portato a una sanzione milionaria.

Prima che la comunità finanziaria si chieda come esattamente si pronuncia il suo nome, Khosrowshahi dovrà prepararsi a una lunga battaglia per assicurare la prosperità di Uber.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.