Annoiati ed egocentrici, siamo passati da Pokemon a Sarahah

Manuel Peruzzo

Alla ricerca della verità su di noi online, siamo spaesati nel chiederci se i nostri contatti sui social network sono sinceri o agiscono per compiacerci

È il nuovo gioco dell'estate dal nome impronunciabile: Sarahah. Trattasi di una app virale saudita nata per volontà di tale Zain al Abidin Tawfiq, che l’ha pensata per migliorare i luoghi di lavoro: l’anonimato avrebbe permesso critiche costruttive (o più probabilmente di non essere licenziati e imprigionati). Non sappiamo com’è andata a finire lì. Qui in occidente siamo comprensibilmente tornati tutti adolescenti, e un po' ridicoli.

 

Si è capito in fretta che preferiamo tenere le menzogne in pubblico e le verità in privato, almeno se ci riguardano. L’ordine cosmico s’è manifestato sui nostri social network, dove pubblichiamo volontariamente il meglio e involontariamente il peggio di noi. La foto in cui dimostriamo vent’anni e trenta chilogrammi di meno la mettiamo su Instagram, però chiediamo agli altri d’essere sinceri e inviarci "critiche costruttive" (non si sa per farci cosa: vorremo mica cambiare a quarant'anni?!). Tutto in privato, ovviamente. E lo fanno, lo facciamo. Accettiamo questo gioco all'anonimato perché siamo un po’ masochisti e un po' annoiati, molto curiosi e tanto egocentrici, e persino un insulto è pur sempre una forma d’attenzione nei nostri riguardi. È un peccato ignorarlo.

 

 

E infatti subito dopo esserci registrati e avere chiesto di lasciare messaggi di spassionata onestà, che fare con quei messaggi? Nella condizione in cui siamo, di piccole pseudo celebrità con un pubblico di nicchia, cioè a un passo dalla mitomania, sarebbe uno spreco tenerli per sé. Meglio farne degli snap da condividere con tutti. E qui ci si divide tra chi pubblica solo gli insulti e chi pubblica solo le lodi (i più sgamati ripartiscono in modo equo critiche e lusinghe, o comunque trovano il modo di dire che hanno ricevuto offerte di prestazioni sessuali, e fa sempre piacere). Subito appare evidente che l'effetto immediato dei complimenti in forma anonima è che sembrano scritti da chi li ha pubblicati. Rischioso.

 

Per le critiche il percepito è ancor più ambiguo. Generalmente quelle che ci feriscono le teniamo per noi, come le foto in cui siamo usciti male. Pubblichiamo le altre, quelle fuori fuoco, quelle che sono socialmente censurabili e di cui siamo sicuri riceveremo l'appoggio degli amici. Ci vuol poco a sembrare superiori, delle inconsapevoli piccole Anna Tatangelo che: “Quando una persona è niente, l'offesa è zero”. E quanti applausi in forma di like, e pacche sulle spalle in forma di commenti. L’estate scorsa cercavamo Pokemon tra i tombini, quest’agosto cerchiamo la verità su di noi online, e se non la troviamo possiamo sempre sondare nuove forme di egocentrismo.

 

Dopo il posto fisso e la laurea, l’onestà è l’ennesima sopravvalutazione dei nostri tempi. Dall’onestà nascono i peggiori partiti politici, figuriamoci se possiamo aspettarci introspezione e profondità esistenziale: ammesso che noi non siamo in grado di formulare critiche feroci su noi stessi, non è forse compito di chi ci conosce bene? Non possiamo neanche misurare il livello di gradimento della nostra immagine pubblica perché potremmo avere un solo nemico ossessionato che ci lascia dieci messaggi (e allora lo chiameremo hater o stalker, o semplicemente pirla con troppo tempo libero?). Se quando qualcuno non è osservato ci dirà quel che realmente pensa allora significa che il resto del tempo ci sta mentendo.

 

Pensiamoci, mai come oggi siamo stati dotati di feedback per valutare la nostra performance mediale con like e cuori e stelline, eppure risultiamo spaesati nel chiederci se i nostri contatti sono sinceri o, prospettiva terrificante, agiscono per compiacerci. È uno di quei casi in cui appena te lo chiedi capisci che non te ne frega niente. Se anche stessero mentendo per gentilezza, dicendoci che siamo venuti bene, o che siamo molto simpatici o arguti, perché mai non dovremmo credergli? 

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