Perché l'Italia dovrebbe seguire il modello inglese per lanciare e far crescere le nuove imprese

Giovanni Battistuzzi

Per crescere crescono, ma lentamente e con un certo ritardo rispetto al mercato europeo. Le start up italiane sono passate dalle 3.379 del 2014 alle circa 4.756 del settembre 2015. Un incremento incoraggiante per numero, meno per portata economica.

Per crescere crescono, ma lentamente e con un certo ritardo rispetto al mercato europeo. Le start up italiane sono passate dalle 3.379 del 2014 alle circa 4.756 del settembre 2015. Un incremento incoraggiante per numero, meno per portata economica. Questo settore infatti in Italia a oggi rappresenta solo lo 0,21 per cento del totale del fatturato delle aziende italiane. Altra rilevanza hanno invece all’estero. In Inghilterra ad esempio sono oltre 47 mila e incidono per l’11 per cento sul giro d’affari complessivo delle aziende del Regno Unito. Diversa mentalità, diversa attitudine all’impresa, forse, soprattutto diverse condizioni legislative e di mercato. La lingua franca del tech è l’inglese, la piazza europea più grande di questo settore è Londra e “molte volte dietro il successo o meno di un idea, di una start up c’è la sua presenza nella city”. Maurizio Mesenzani è il fondatore di Chorally una piattaforma di social caring, engagement e advocacy che permette alle imprese di gestire in modo integrato le interazioni con i clienti attraverso il web, le mail, le app e i social network, e dall’Italia ha deciso di aprire una filiale in Inghilterra per continuare a crescere: “Non ci sono alternative, in Italia c’è mercato per partire, ma dopo una certa soglia non c’è possibilità di sviluppo, mancano quelle aziende che possono investire sul tuo lavoro”.

 

Come Chorally anche molte altre start up italiane hanno scelto di intraprendere il viaggio oltremanica – pur mantenendo la sede italiana – per tentare di attrarre una clientela internazionale. Martedì scorso a Montecitorio alcune di queste hanno raccontato le loro esperienze imprenditoriali in un evento organizzato dall’Ambasciata britannica a Roma e dell’Inter-Parliamentary Union. Perché se è vero che l’Europa sta creando un mercato unico digitale per favorire un incremento quantitativo e qualitativo di nuove aziende tecnologiche in modo cercare di colmare il divario con quello americano. La distanza con la Silicon Valley è però ancora grande e, in questo nuovo scenario, l’Italia è ancora periferia di un mondo imprenditoriale che si sta evolvendo velocemente e che dal tech si sta evolvendo anche verso il fintech, ossia quella tipologia di imprese tecnologiche applicate alla finanza, un settore che solamente nel Regno Unito occupa oltre 135mila persone e genera un giro di affari di circa 20 miliardi di sterline.

 

Un divario comunque ricucibile a patto di intervenire velocemente sulla legislazione e nell’adeguamento delle infrastrutture tecniche, ossia sulla diffusione della banda larga nel territorio italiano. Le basi per un rapido miglioramento ci sono, considerando anche il tessuto industriale italiano caratterizzato da un gran numero di piccole e medie imprese, che come sottolineato dall’ambasciatore britannico in Italia Christopher Prentice, “altro non sono che start up ante litteram, aziende che hanno fatto dell’innovazione e della tecnologia la loro forza nel corso degli anni”. Il paragone con le pmi se è pertinente deve però essere attualizzato e superato. Il discrimine per questo superamento è innanzitutto normativo. Inserire le nuove start up che stanno nascendo nel suolo italiano nelle categorie utilizzate sino a ora per classificare le aziende provoca diversi rallentamenti sia per quanto riguarda la nascita, sia per quanto riguarda la loro espansione. Intrappolare questo tipo di imprenditorialità in un tessuto di norme troppo rigide non fa altro che rallentare l’innovazione e scoraggia la nascita di nuove imprese. “Dobbiamo superare in questo ambito la tendenza di creare leggi pensando a come fare affiché queste non vengano eluse. Dovremmo puntare a una semplificazione normativa per permettere lo sviluppo di nuove forme di economia”, ha sottolineato l’onorevole Lia Quartapelle. Meno leggi quindi, ma non basta.

 

Una rete di conoscenze

 

Il modello inglese funziona soprattutto per la capacità di creare una rete di conoscenze ed esperienze che riescono a indirizzare gli sforzi delle nuove realtà imprenditoriali verso la realizzazione di un prodotto vendibile e completo. Un networking che segue lo sviluppo delle start up e le aiuta a trasformarsi in aziende ben inserite nel mercato. E’ il caso di Qwince, start up palermitana che si occupa di sviluppare e proteggere i dati di nuove tecnologie in campo medico, informatico e del digital marketing, che “grazie al networking londinese e al tutoring fornito dal governo per il lancio e lo sviluppo delle start up siamo riusciti ad affinare la nostra offerta, a sviluppare un business plan adeguato e a elaborare un modello di presentazioneadatto ad attrarre clienti e finanziatori”, ha detto Gianmarco Troia, fondatore e Ceo di Qwince. “Siamo stati seguiti per otto mesi da un’imprenditrice di successo che ci ha insegnato a essere imprenditori e a creare un prodotto adeguato al mercato”. Le basi c’erano, ma c’era bisogno di affinarle e indirizzarle al meglio per realizzare una azienda capace di aumentare del 40 per cento il proprio fatturato nel 2014 e raggiungere un mercato globale. Un successo simile a quello avuto da FacilityLive, start up made in Pavia – che recentemente ha aperto un suo ufficio a Londra – che ha realizzato un motore di ricerca semantico, ossia che non adotta il principio statistico della rilevanza, ma che fornisce risultati in base alla pertinenza con la ricerca effettuata. Una tecnologia che mette assieme informatica e scienze umanistiche e che permette di organizzare e selezionare informazioni in un nuovo processo di selezione che supera il tradizionale modello Google (consulente Google AdWords) per i motori di ricerca.

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