(foto LaPresse)

La tecnologia registra tutto di noi, e ci vende a investitori (e autorità?)

Piero Vietti

I nostri dati su Facebook e il device di Amazon che ci ascolta

Roma. Nella notte tra martedì e mercoledì, Facebook ha chiesto agli utenti che erano dalle parti di Bangkok di confermare a tutti di stare bene. Secondo il social network c’era infatti stata una forte esplosione nel centro della capitale thailandese. Nessun incidente, invece, solo qualche petardo scoppiato in strada, che per colpa di una fonte considerata affidabile da Facebook si è trasformato in pericolosa esplosione. Oltre a essere un clamoroso caso di fake news proveniente proprio da Facebook, l’episodio di Bangkok svela un altro problema con cui la piattaforma di Mark Zuckerberg gioca da tempo, e cioè quello dei dati personali che conosce e a cui ha accesso. Grazie alla geolocalizzazione il social network è a conoscenza di dove ci troviamo, e ieri ha inviato la richiesta di “safety check” solo agli iscritti che si trovavano in quella zona. Come noto, Facebook raccoglie con il nostro consenso più o meno esplicito molti dati che ci riguardano, basandosi sulle nostre interazioni, i clic che facciamo sulle bacheche dei nostri amici, i mi piace che mettiamo sotto a foto, video e pagine di aziende, prodotti e personaggi che amiamo o che vogliamo seguire. Così il social network ci propone sempre di più post che potrebbero piacerci, e naturalmente pubblicità di oggetti che sotto sotto desideriamo.

Nulla di misterioso o illegale, sia chiaro: ogni utente può vedere quali informazioni Facebook conosce di lui, dalle passioni per lo sport ai suoi ultimi spostamenti alle preferenze sessuali. Il sito di giornalismo indipendente ProPublica, vincitore di diversi premi Pulitzer negli ultimi anni, ha chiesto ai propri lettori di condividere le categorie di interesse che Facebook ha loro assegnato. Ne sono uscite circa 52.000. Facebook però, scrive ProPublica, non dice in modo chiaro agli utenti che su di loro compra da terze parti anche altri dati sensibili che riguardano il reddito, i tipi di ristoranti frequentati e il numero di carte di credito presenti nei loro portafogli. Il social network dichiara in modo vago di ricavare certe informazioni da “fonti diverse” ma, denuncia ancora ProPublica, non spiega come e da chi acquista questi dati, e cioè società di brokeraggio che raccolgono dati commerciali sulla vita offline degli utenti (un esempio? Il provider di email e servizi online Datalogix). Poiché queste terze parti utilizzano categorie differenti da quelle di Facebook, la società di Zuckerberg non le rende disponibili sulle proprie pagine.

 

 

Facebook poi, continua il sito di inchieste americano, suddivide gli utenti in innumerevoli microcategorie, che vanno da quelle più innocue sul piatto preferito a quelle più sensibili sulle “affinità etniche”, e rivende questi dati a chi fa pubblicità mirata. Il problema, conclude ProPublica, è che circa 600 delle 29.000 categorie proposte da Facebook a chi vuole fare campagne di advertising provengono da “terze parti”. Comparandole con gli interessi che Facebook dice agli utenti di conoscere di loro, non si trova alcuna corrispondenza. Facebook conoscerebbe dunque di noi molto più di quello che vuole farci credere e che noi vogliamo che sappia. E’ il prezzo da pagare al progresso, questa quasi totale mancanza di privacy nella nostra vita? Un caso raccontato da The Information e ripreso da diversi network americani introduce un nuovo interrogativo etico sul limite oltre il quale la tecnologia debba (o meno) spingersi: la polizia di Bentonville, in Arkansas, ha chiesto ad Amazon di potere accedere alle informazioni raccolte da un Echo – device che permette grazie ai comandi vocali di effettuare alcune operazioni come riprodurre musica o effettuare acquisti online – presente nella casa di un uomo accusato di omicidio. Come il Siri di Apple, Echo si attiva se si pronunciano determinate parole, e comincia a registrare e a inviare dati ai server di Amazon.

Succede però che Echo, scrive The Information, ogni tanto si accenda da solo, e registri senza che le persone presenti nella stanza se ne accorgano. Se Echo ha “sentito” qualcosa dell’omicidio potrebbe fare luce su quanto accaduto. Amazon si è rifiutata di dare agli investigatori eventuali registrazioni, dando luogo a un caso simile a quello dell’Fbi che voleva accedere all’iPhone del killer di San Bernardino. Amazon può rifiutarsi di fornire dati che potrebbero risolvere un caso giudiziario? Dato che il luddismo non è la soluzione, fino a che punto possiamo essere sicuri che la nostra privacy venga rispettata se gli oggetti tecnologici presenti in casa nostra registrano le nostre attività più o meno a nostra insaputa? Se sappiamo di essere “spiati” dai nostri oggetti, e forse un giorno anche dall’autorità, continueremo a comportarci come prima? 

Di più su questi argomenti:
  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.