Foto LaPresse

Siamo avventurieri, e Pokemon Go è il nostro poema cavalleresco

Antonio Gurrado
Rousseau nel ’700 già spiegava i cacciatori di realtà virtuale. Se i giocatori di Pokémon Go vi sembrano regredire a uno stato primitivo è perché, spiega il filosofo, “un tal commercio non esige un linguaggio molto più raffinato di quello dei corvi o delle scimmie”.

E’ vero; credetemi, è accaduto. Di notte rientravo da un lungo aperitivo fuori città e, davanti alla stazione, ho trovato cinque miei studenti universitari seduti ad aspettarmi pacificamente, con una delicatezza d’animo che mai avrei preventivato. Mentre ancora li ringraziavo del pensiero, con altrettanta cortesia mi hanno spiegato che la stazione era un Pokéstop e che, vagolando dopo mezzanotte, a loro dire era più facile catturare Pokémon trascurati. Sono stati oltremodo esaurienti, pertanto non ho capito niente. Mi stavo avviando verso casa avvolto nella consapevolezza della differenza generazionale che ci separava, quando è successo l’imponderabile: si sono rituffati ciascuno nel proprio smartphone e mi hanno riaccompagnato fin sotto il portone, a falange, deviando talvolta a destra o a manca perché vedevano Pokémon davanti al municipio o dietro una pizzeria. Io non vedevo niente ma ho accettato di buon grado le deviazioni come prezzo di un’interessante scoperta: se una diffusa teoria vuole che giocare a Pokémon Go porti a isolarsi e ad astrarsi, nel concreto mi ha fruttato un manipolo che non mi ha lasciato solo per strada di notte.

 

Del resto gli uomini vanno a caccia di Pokémon da secoli. Come minimo dai tempi di Lancillotto, il quale per andare a recuperare una sconosciuta moglie altrui – non più concreta di un mostriciattolo variopinto, almeno sulle prime – si spinse fino al regno di Gorre, talmente lontano da non poter essere sicuri della sua effettiva realtà; e per catturarla fu disposto a salire sulla carretta dei condannati a morte, attraversare l’acuminato Ponte della Spada e utilizzare anelli magici non così difformi dalle Ultra Ball o dalle Uova Fortunate. Il principio che regola Pokémon Go è lo stesso della quête, la ricerca di un oggetto irraggiungibile che nel Medioevo impegnava i cavalieri del ciclo bretone, e l’evenienza che i Pokémon siano oggetti virtuali, ossia non esistano, è del tutto irrilevante: non esisteva nemmeno il Sacro Graal, eppure l’importante era cercarlo.

 


(foto LaPresse)


 

In questa prospettiva si spiegano e si giustificano tutte le controindicazioni di chi grida che Pokémon Go segna la degenerazione, l’abisso, la fine della nostra civiltà, a cominciare dalle autorità bosniache che hanno messo in guardia i giocatori dal rischio di finire sovrappensiero nei campi minati (in questo caso, più che Pokémon Go, mi sembra che il problema siano i campi minati). Le mamme urleranno dietro ai figli che l’infernale applicazione causa incidenti. Tanto per fare un esempio, il quattordicenne investito a Giulianova perché troppo preso dal giochino ha imparato a proprie spese una grande verità: gli uomini hanno sempre bisogno d’inseguire qualcosa che li distragga. Al liceo gli insegneranno presto che, in Matteo Boiardo, Orlando innamorato trascura la corte bandita di Carlo Magno per rincorrere la bella figlia del re cinese, intravista appena; forse gli insegneranno anche che il cavaliere Ivano, nel ciclo di Chrétien de Troyes, per smania di ficcarsi in avventure fini a se stesse dimentica pure di essere sposato. E sì che era partito perché i prodi suoi compagni lo provocavano, rinfacciandogli di essersi impigrito da quando aveva preso moglie.

 

Le mamme non hanno speranza, oggi come ieri, di fronte alla letteratura cavalleresca: sempre nei millenari romanzi di Chrétien de Troyes, la madre di Perceval dà in smanie per salvaguardare il figlio dalla morte già toccata a un padre e un fratello troppo avventurosi; il protagonista però s’imbatte per caso in dei cavalieri – magari di notte, davanti alla stazione – e si lascia attrarre dalle armi, dalle vicissitudini, dall’inseguimento di qualcosa che non si sa. Diventa cavaliere anch’egli, parte alla ventura, s’innamora e quando torna a casa, sopravvissuto, trova la madre morta. Gli spiace ma può dire di aver visto il Graal, non faccia a faccia perché non esiste bensì in visione, come a chi punta la fotocamera del cellulare sulla strada per l’ufficio può apparire Pikachu. Se c’è una differenza fra i poemi cavallereschi e Pokémon Go, non risiede dunque nella irrealtà di ciò di cui si è in cerca, bensì nel mutato mezzo che s’impiega. Lo smartphone. A differenza dei cavalieri di Re Artù, disponiamo di uno strumento che permette di convogliare in un oggetto privato zil frutto di un’immaginazione collettiva, che come tale si oggettivizza. In questo siamo più simili ai Monty Python nel film sul Sacro Graal, quando, per andare a cavallo in assenza di cavalli, si limitano ad andare a piedi battendo ciascuno due mezzi gusci di noce di cocco per riprodurre il rumore degli zoccoli, e pazienza se il cocco è stato scoperto a Medioevo già esaurito. Lo smartphone di oggi è un nostro prolungamento, integrato al nostro essere uomini e inscindibile, tanto quanto il destriero di ieri.

 

O la noce di cocco, a mo’ di surrogato. La scoperta dell’America e l’irruzione dell’età moderna non hanno arrestato l’incessante ricerca di Pokémon per ogni dove, al punto che la dinamica ludica della caccia di gruppo, di cui io stesso sono stato privilegiato e per certi versi inconsapevole testimone, richiama un celebre passo del “Discorso sull’origine dell’ineguaglianza”. Rousseau fa l’esempio della caccia al cervo. Unendosi all’inseguimento del prelibato animale, sufficiente a sfamarli in abbondanza ma impossibile ad afferrarsi in solitaria, i primitivi selvaggi “acquisiscono gradualmente una prima idea sommaria dell’impegno reciproco, ma solo fino a che sono mossi da un interesse presente e percettibile”, da qualcosa che balza davanti ai loro occhi: se infatti il meccanismo della caccia consiglia che il gruppo si unisca all’inseguimento del cervo, nulla vieta che un singolo svicoli quando scorge una lepre che basti e avanzi a lui solo.

 

Durante le sessioni di caccia collettiva, i giocatori di Pokémon Go vi sembrano regredire a uno stato primitivo? E’ perché, spiega Rousseau, “un tal commercio non esige un linguaggio molto più raffinato di quello dei corvi o delle scimmie”; eppure grida e mormorii inarticolati sono sufficienti a ingenerare la cosiddetta Prima rivoluzione, ossia l’uscita dello stato di natura e l’istituzione dei primi nuclei tribali per mezzo di scambi linguistici più che elementari, essenziali. Nasce a questo stadio il senso di una rudimentale proprietà e con esso i primi furti, cui i selvaggi reagiscono con lo stesso smarrimento di quel giovane che ha chiamato la polizia del Gloucestershire perché gli avevano rubato i Pokémon (la polizia non ha apprezzato, non ha compreso di trovarsi di fronte a una svolta epocale dell’umanità). E’ anche lo stadio in cui sorgono i primi combattimenti, dozzinali scaramucce come l’assalto dell’automobilista cinquantenne che, nel salernitano, voleva accoltellare dei cavalieri erranti, cacciatori di Pokémon, perché procedevano a zig-zag.

 

Si può prevedere che Pokémon Go sarà parimenti ricordato come la novella Prima rivoluzione che ci avrà consentito di uscire da uno stato di natura internettiano, da un’èra in cui credevamo ingenuamente che la realtà virtuale dovesse essere una riproduzione di quella esterna, anziché determinarla; un’èra in cui facevamo ciascuno parte per se stesso, barricati nei nostri profili social, senza capire che per incontrare qualcuno dovevamo inseguire pupazzi immaginari. Né sottovaluterei la connessione fra Prima rivoluzione e primi combattimenti. In Rousseau lo stato di natura non è come in Hobbes, non c’è la guerra di tutti contro tutti; dunque la caccia di gruppo è forse un modo per farci obliare la persistente eventualità dello stato di guerra combattendo mostriciattoli, financo gradevoli a vedersi, pur di non combattere i mostri che non ci piacciono, i selvaggi che non sono affatto buoni. E’ lo stesso principio di difesa su cui si arroccò il più grande cavaliere dell’età moderna, Don Chisciotte, che partendo lancia in resta contro i mulini a vento inventò quattrocent’anni fa la realtà aumentata.

 

Per non parlare di Ariosto, che spedisce Astolfo sulla luna dove “altri fiumi, altri laghi, altre campagne / sono là su, che non son qui tra noi”; la luna è il più grande Pokéstop dell’universo perché vi si trova tutto ciò di cui si ha bisogno ovvero tutto ciò che manca in terra. “Ciò che si perde qui, là si raguna”, scrive il poeta, cogliendo l’importanza dell’aspetto vintage dei Pokémon, che andavano di moda vent’anni fa; aggirandosi raminghi a rintracciarli, gli uomini non fanno che ciò che sempre hanno fatto, ossia inseguire ciò che hanno perso, vagare cercando invano di riacciuffare il passato, fino a che non si annoiano. Se passare giorni d’estate dietro a qualcosa che non si vede e non esiste vi sembra poco dignitoso, consolatevi pensando a quanto tempo ha perso Kant a parlare del noumeno.

Di più su questi argomenti: