Apple in Cina tira poco. La colpa (o il merito) è di WeChat, che ora sbarca in occidente

Michele Masneri

Dietro alla app liberista c’è il mega colosso Tencent, gruppo cinese nato negli anni Novanta e ora in grande ascesa

San Francisco. Certo le vendite degli iPhone sono calate, ma dopo l’ultima trimestrale non ci si dovrebbe preoccupare per gli azionisti Apple. Il boccon di pane non dovrebbe mancare, e se le vendite di telefoni sono scese dell’1 per cento, gli utili sono comunque di oltre 10 miliardi di dollari e rimane la liquidità, arrivata a duecentocinquantasette (sempre miliardi), che custodita all’estero esentasse, in attesa che Trump batta un colpo, consentirebbe di comprarsi dieci Fca (24 miliardi), cinque Tesla o Eni (52 miliardi) o qualche paese dei Pigs.

 

Per adesso la società non ci pensa, ha preferito viziare gli azionisti con una cedola che ne fa il più grande staccatore di dividendi del mondo (battendo per la prima volta Exxon). E tutti aspettano il prossimo iPhone 8 dalle magiche virtù.

 

Tranne i cinesi. Tra le pieghe del bilancio Apple i “gufi” di Silicon Valley osservano infatti criticità riguardo il calo di fatturato drastico in Cina. Meno 14 per cento, unica voce negativa (a doppia cifra) mentre gli Stati Uniti salgono dell’11 per cento, l’Europa del 10, il Giappone del 5. Da cosa dipende il ridimensionamento? Una spiegazione molto interessante la dà il blog Stratchery: uno dei più consultati qui dai ceo nella pur vasta pubblicistica della Silicon Valley, è uno scarno sito a pagamento scritto dall’analista Ben Thompson, fa media analysis, cioè non scoop, ma “processa” le informazioni e ne tira fuori un succo lavorato e però di massimo interesse. Il blog e la relativa newsletter sono rigorosamente a pagamento, senza pubblicità, e l’autore tiene a denunciare che si occupa di questo e solo questo, non ha incarichi in aziende, e si paga di tasca sua perfino i viaggi alle varie presentazioni.

 

Ebbene, secondo il sito integerrimo, il crollo di Apple in Cina si deve al fatto che lì la casa di Cupertino non può esercitare la forma di mercato che ne garantisce il business model, ovvero il monopolio. Quanti di noi – scrive Thompson – continuano a comprare bovinamente prodotti della Mela perché li considerano migliori di altri, e quanti invece perché sanno di non poter fare a meno dei Contatti, dell’iMessage, di altre app che non sono compatibili con Android (chi ha provato a esportare anche solo la sua rubrica su un dispositivo non iOS sa di cosa si parla)? Così tutti noi accorriamo a comprare il prossimo iPhone anche se magari la concorrenza Samsung è migliore e l’aggiornamento abbastanza indistinguibile. In Cina invece aspettano tranquillamente di vedere il prossimo iPhone, come sarà. Fanno persino confronti. E nel caso comprano addirittura la concorrenza: laggiù infatti il telefono in generale è diventato una banale commodity da quando c’è una app che si è mangiata tutte le altre, si chiama WeChat, ed è da noi difficilmente immaginabile. Pensate di avere Facebook, Google, Snap, Paypal, e WhatsApp tutte insieme. WeChat offre infatti tutti questi servizi, dalla messaggistica agli scambi e pagamenti, alla ricerca, alla socializzazione. Molto usata anche per pagare il conto al ristorante. Soprattutto, disponibile sia per iOs che per Android. E’ usata da 900 milioni di cinesi, timidamente sta sbarcando anche in occidente ed è di fatto in concorrenza con Apple e con quello che Facebook vuole diventare. Con WeChat ogni telefonino, dall’araldico iPhone agli scassoni più cheap, diventa un portatore sano di questa app, trasferibile a piacimento. E dunque il telefono ridiventato medium e non messaggio deve combattere ad armi pari con gli altri (pur al netto di un surplus di design e fighettismo). Così si spiega come la “retention” o fedeltà alla ditta telefonica, sia la metà, il 50 per cento rispetto al 90 per cento del resto del mondo. Come scrive Ben Thompson, “Apple in Cina è un venditore di telefoni come tutti gli altri.

 

Dietro alla app liberista c’è il mega colosso Tencent, gruppo cinese nato negli anni Novanta e ora in grande ascesa. Ha appena aperto un centro di ricerca a Seattle e a fine marzo si è concesso, con una mancetta, l’acquisto del 5 per cento di Tesla (per 1,8 miliardi). Da qualche giorno grazie a Wechat è entrato a far parte dell’aristocrazia startuppara mondiale, con una capitalizzazione che ha superato i 300 miliardi di dollari (e dunque è una delle poche aziende che Apple non potrebbe riuscire a comprare in contanti, seppur di poco).

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