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Il senso di Amazon per il bio e quello del bio per il business

Michele Masneri

La settimana scorsa le azioni di Whole Foods, la più grande catena di supermercati bio al mondo, hanno registrato un aumento del 10 per cento a Wall Street

Amazon fa la spesa da Whole Foods. La settimana scorsa le azioni della più grande catena di supermercati bio al mondo hanno registrato un aumento del 10 per cento a Wall Street dopo l’entrata nel capitale di un fondo che chiede di cambiare management e strategie (e che potrebbe portare il gruppo verso una vendita), e sulle voci di un interesse del gruppo delle consegne a domicilio.

 

Whole Foods, colosso del valore di oltre 11 miliardi di dollari con 462 punti vendita negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e Canada, potrebbe passare così di mano dopo che il fondo Jena Capital è salito quasi al nove per cento dell’azionariato. Mentre nei giorni scorsi si è parlato di un interesse di Amazon per la società; e avrebbe senso, dopo che il gruppo del commercio elettronico di Jeff Bezos ha già aperto le sue drogherie fisiche e deve combattere con Instacart, la start-up che fa la spesa e la porta a domicilio (spesso proprio da Whole Foods).

 

Mentre negli ultimi tempi il gruppo del biologico pare arrancare: le previsioni di crescita a lungo termine sono infatti solo del 2,5 per cento, contro il 10 per cento dei rivali. Soprattutto la clientela più giovane pare meno fedele della generazione precedente, che qui per la prima volta ha conosciuto il kale e la busta della spesa di tela.

 

Whole Foods, auto-bio-grafia d’America, ha dato infatti da mangiare ai baby boomers delle “bolle liberal” delle due coste. Nata nel 1980 ad Austin, Texas, aprì poi a Palo Alto il primo avamposto siliconvallico e poi dilagò ovunque, diventando un riferimento culturale, per chi cominciava a non poter vivere senza kombucha e radici di zenzero.

I suoi negozi enormi sono templi del culto bio, tutto è organic, local, possibilmente vegan e talvolta paleo: non ci sono gli infiniti corridoi gelidi di surgelati e le torri di gelati e bibite per ciccioni, ma infiniti corridoi di frutta messa lì come in un mercatino, in realtà lucidissima e invitante. Il genio di Whole Foods è stato infatti quello di mischiare l’opulenza delle merci con il consumo etico, dunque consumo etico ed estetico, perché la frutta e la verdura, seppur bio, niente hanno da spartire con l’estetica poverella dei negozi organici con la mela opaca e la carota stortignaccola, anzi è il trionfo del vegetale turgido e della bistecca rosea, perché da mucca felice e umanizzata. In cambio, prezzi bestiali, che fino ad oggi hanno garantito una redditività di tutto rispetto. Adesso però c’è il solito problema dei millennial e dei loro mutevoli gusti.

 

Ma sarà difficile dire addio ai commessi rocchettari con grembiule brandizzato, i banchetti di assaggi gratuiti tipo farmer market, il reparto piante e fiori, le riviste (dal giornale di Oprah a Monocle a mensili di politica internazionale, a più plausibili gazzette di arrosti e zuppe: ma quelli di puro gossip che si trovano alle casse dell’America profonda sono banditi, come le buste di plastica. Anche la casalinga più retriva che è in noi va da Whole Foods perché vuole sentirsi intelligente, questo è il premium price che paghiamo).

 

Aitanti startupper e signore scattanti fanno la fila tra infiniti frigo per latte di mandorla, di soia, di qualunque cosa purché non di mucca (c’è anche una puntata dei Simpson in cui Homer, sgomento dopo lo scontrino da Whole Foods, dice: “Andremo in un vero supermercato, la prossima settimana! E la cassiera tutta piercing e tatuaggi dice: “Una settimana? Non usiamo conservanti, la nostra roba non dura così tanto!”).

 

Un’Esselunga hippie, insomma, un club selezionato dove anche cuccare (in Italia l’hanno capito col brand fighetto NaturaSì non a caso rilevato di Renzo Rosso), tra scaffali di legno, allegre scritte su lavagne, personale giovanissimo e “funky”, niente facce da commessi. Tutto opera del fondatore, John Mackey, oggi allegro sessantenne, ex fricchettone studente di religione e filosofia ad Austin, Texas, poi fondatore di una cooperativa bio, e di un primo negozio che si chiamava “Saferway” per sfottere il colosso dei supermercati Safeway. Poi, abbandonato Buddha e folgorato sulla via dei fatturati, fondò Whole Foods. Autore di due libri, “Capitalismo consapevole” e “La dieta di Whole Foods”, appena uscito, è un Caprotti organico e forse più scaltro, è colui che ha trasformato il biologico da nicchia in pil. La sua ricetta è stata, oltre alla qualità, dare il cinque per cento in beneficienza, possibilmente a cause “local”, parola magica. Più altre “visioni” di un paternalismo 2.0: il più alto dirigente non può guadagnare più di 14 volte l’ultimo facchino; e l’energia viene quasi tutta da fonti rinnovabili.

 

Cuore a sinistra e portafogli a chilometri zero, Mackey si è sempre battuto per tenere fuori dai supermercati i pesticidi ma soprattutto i sindacati, che “sono come un herpes, che non ti uccide ma è molto spiacevole”, come ha detto in passato, e nel 2008 insieme ai supermercati Costco e ai caffè di Starbucks ha creato un polo per fondare rappresentanze dei lavoratori alternative. E’ anche scettico sul riscaldamento globale e tutta “l’isteria” che ci sta intorno. “Il climate change è perfettamente naturale e non per forza negativo”, ha detto qualche tempo fa. Vive felice nel suo ranch ad Austin, guidando una vecchia Civic nonostante la colossale fortuna personale, con la fidanzata dei tempi dell’università, conosciuta quando viveva in una comune vegetariana. Gira in braghe corte, anche in viaggio si porta dietro la sua avena bio per fare colazione, e le uova delle sue galline (che presumibilmente avranno un loro account Instagram). Sarebbe un magnifico ministro dell’agricoltura per Trump, in fondo: è stato infatti anche un precursore delle fake news: nel 2007, durante l’acquisizione del gruppo rivale Wild Oats, fu scoperto che per anni aveva scritto su forum e portali Internet con un nome falso, denigrando rivali bio e non solo. E’ un convinto libertario, dopo un passato socialisteggiante, di Von Mises, ha sponsorizzato Rand Paul, è contrario alla sanità pubblica (“tutti noi simpatizziamo per chi è malato, come possiamo ammettere che queste persone possano avere un diritto naturale alle cure, più di quanto ne possa avere un affamato per il cibo, o il senzatetto per una casa?”). I suoi clienti si sono trovati talvolta a doverlo boicottare, ma poi il cavolo nero ha avuto la meglio.

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