Torri di Mies van der Rohe (1951) a Chicago

Chicago blues

Michele Masneri

Un orto bio all’aeroporto, il Presidential Center in costruzione Viaggio sulle tracce degli Obama nella seconda città d’America

Chicago. Che cosa c’è di meglio, nel President Day, festività del 22 febbraio che onora ogni anno il compleanno di George Washington, di un viaggio sulle tracce degli Obama e dello spirito americano nella seconda città d’America, città cara all’ex presidente, che abbandonata la Casa Bianca si compra case in giro per l’America e firma contratti milionari per le sue autobiografie. Intanto l’aeroporto, che contende sempre il primato per il più trafficato del paese, e certamente il più obamiano, è infatti l’unico ad avere un orto, vero orto biologico come e meglio di quello dell’ex first lady. Vicino a un vero bimotore, a grandezza naturale, ma naturalmente replica dell’eroe dell’aria Hutch O’ Hare a cui è intestato lo scalo, medaglia al valore, asso dell’aviazione, abbattitore seriale di giapponesi, appena celebrato da una targa posta dall’obamiano sindaco Rahm Emanuel. E poco più in là, nel terminal 3, quello dei voli domestici, ecco una “rotunda” con prezzemolo, carote, zucchine, tutto idroponico come neanche Michelle Obama avrebbe sognato – e le verdure aeroportuali forniscono i ristoranti, tutti di proprietà del colosso Hms controllato, ma nessuno lo sa, dalla italica Autogrill, e qualche giorno fa grande trambusto perché nel ristorante super bio con tripudio di hummus e kale e cauliflower cioè rispettivamente cavolo nero e bianco, sono passate le ragazze Obama, con gran fervore di selfie (ci sono addirittura le api in questo aeroporto, con trentatré alveari a produrre miele bio, che sembrano usciti da un film di Alba Rohrwacher, e pare non interferiscano con i voli civili).

 

Però dopo quest’orto orizzontale, fuori, una città precipuamente verticale e votata all’edificazione, dove è in costruzione un colossale “Obama Presidential Center”, mausoleo alla memoria, come usa negli Stati Uniti dove invece degli archi di trionfo si creano biblioteche, anche in caso di presidenti non proprio accaniti lettori (ma non è questo il caso). Pare però che come spesso succede nelle committenze carismatiche il leader democratico non sia per niente soddisfatto dei progetti pervenuti, opera dello studio newyorchese Ralph Appelbaum Associates, già autori del Museo nazionale di storia afroamericana di Washington, e pronti a plasmare una colata di cemento da 1,5 miliardi di dollari (ma Obama si è lamentato del design troppo dimesso, pare).

 

Il nuovo presidenziale falansterio andrà a costituire un nuovo tassello di uno skyline unico, nella città più architettonica d’America, patria del grattacielo iconico, te lo spiegano nel tour turistico in battello, in un clima incredibilmente mite che qui non si spiegano, quindici gradi, giacchette leggere (benedetto riscaldamento globale, nemesi obamiana). E dunque col battello si va sotto soprattutto il grattacielone One Ibm Plaza, ultimo progetto del maestro di verticalità Mies van der Rohe, che qui ha costruito tutto un water anzi lakefront: con epicentro il palazzone della Ibm molto simile al Seagram Building di New York, con tendine a palline di alluminio dorate che però qui non ondeggiano col calore dei termosifoni; mentre nell’atrio enorme e modernissimo troneggiano sia il busto del grande architetto, tipo mamma del megadirettore Catellani o Angelo Rizzoli a Crescenzago, sia maestosi divani Barcelona dello stesso archistar, che però al tatto e al sedere si rivelano essere di plastica, e rigidi e scricchiolanti. Però che eroe, Mies, che inventa l’estetica del grattacielo fumé, con gli alti atrii e pilastroni, e qui muore praticamente “in progress”, avendo iniziato il progetto con il cancro  e la chemioterapia, ma questo non gli impedisce capricci – non gli va bene il terreno e allora fa comprare un altro lotto di terra alla paziente Ibm, allora l’azienda più importante d’America, una vera Olivetti americana, che impiega i più grandi geni: Eero Saarinen, anche lui come Van der Rohe sbarcato in America grazie al nazismo, scappando dalla Bauhaus e finendo tutti assimilati in tempi pre-ban, come si vede nel Chicago Institute of Art dove tutti sono “American architect”, ma “born” altrove. Un museo gigante, un po’ Louvre dei poveri con la sua parte antica e le sue modernità nell’ala fatta da Renzo Piano e identica alla sede del Sole 24 Ore a Milano e alla California Academy of Science a San Francisco, dunque il solito susseguirsi di pilastrini cilestrini e parquet chiari e tanta ariosità e il solito aspetto da scuola media hi-tech datata. Però qui tra busti romani e Hopper e tantissimi espressionisti e impressionisti americani tremendi, tutto un po’ accatastato come succede sempre nei musei americani dove si ha spesso il dubbio che i donatori abbiano anche un po’ voluto svuotare la cantina (del tipo: vuoi il Picasso? Allora ti prendi anche il ritratto di ’poro nonno), ecco un reparto-mobili con tutta una serie di Hoffman, Saarinen, Neutra e poi grazie alle ristrettezze della guerra e nuovi materiali poveri e industriali, una grande scrivania tonda e burrosa di Lloyd Wright in molded plywood, materiali semplici e friendly per una classe media con le sue villette. E’ lì che viene fuori l’arte americana, con i giocattoli e la giocosità folk, mentre prima nell’epoca post coloniale ancora coi complessi e le rigidità ecco tanti ritratti di nobiluomini americani datati “New York 1750”, una  “Mrs Alexandra Grant, 1753” con ampio vestito di seta tipo Ivanka Trump, tanti signorotti con facce vitaminizzate che però sono già facce da Mad Men. E orrido mobilio impiallacciato mentre fuori già impazzano gli Shakers con le loro poltroncine severe e moderne.

 

Però è chiaro che il protagonista anche di questo museo è il grattacielo stesso: così su un ballatoio tra gli ascensori soprattutto una interessantissima e forse inconscia mostra magari permanente dell’artigianato dei grattacieli, con inferriate pinnacoli antenne ante di ascensori, e tanti artigiani italiani forse di quelli che si vedevano mangiar panini su travi sospese, dei gargoyle di terracotta invetriata tipo fratelli Della Robbia però cinquecento anni dopo e certamente waterproof per il Wrigley building, della dinastia delle gomme da masticare in un rococò di cemento armato con citazioni della cattedrale di Siviglia. E ancora grate e doppi vetri e abbaini e copri-termosifoni di quella latta dorata che manda i riflessi ed emoziona sempre al tramonto noi europei, più della pietra degli antenati. Di ottone vero o finto, di aspetto plastico come le latte dei biscotti, come qui in questo museo gigante la solita distinzione tra benefattori principali medi scrausi trova in pratiche targhette intercambiabili (per improvvise donazioni) lo stesso materiale color dell’oro. Ma poi al primo piano tra i Sargent a strafottere, tutte le inservibili avanguardie americane fino agli anni Quaranta quando finalmente arriva un pubblicitario caravaggesco a cogliere le luci della città (Hopper) mentre l’American Gothic cioè il pezzo forte della casa, il ritratto di famiglia col forcone, è via perché in prestito da qualche parte.

 

Tentativi di marketing museale da copiare, anche, forse: accanto a una crosta di Jules Breton, realista francese dell’Ottocento raffigurante una contadina con falcetto che guarda non si sa cosa con dei piedoni da uomo, vi è un grande cartello: “Questo è il quadro che Bill Murray ama!”, e si scopre che la tela avrebbe salvato l’attore di Ghostbusters da sicuro suicidio: deciso a buttarsi nel lago Michigan dopo una prova teatrale di gioventù andata male. Ma la trovata non sembra attirare grandi folle attorno al quadro datatissimo.

 

E però ancora in battello, guardando in su in questa simil New York (ma più pulita! E con gente più simpatica, dicono i chicagoers molto orgogliosi) piena di cemento e acciaio tutto sovradimensionato (muretti e inferriate e cancelli grossi oltre il necessario), tutto monumentale e maschile in una città testosteronica, la guida con cappello di paglia sorvola e rimuove con lapsus che il più grande grattacielo, unico col suo nome sopra, è un’ennesima Trump Tower che svetta in mezzo alla città, grande fallo laterizio della pancia d’America (nessuno la nomina, siamo in piena negazione). Palazzo anche non brutto.

Mentre al museo d’arte contemporanea, molti Pistoletto e Calder e poi degli artisti locali con molte variazioni sul tema piscina pubblica, una grande mostra su Merce Cunningham con i costumi e le canottiere con sudori e ascelle pezzate d’epoca disegnate da Robert Rauschenberg direttore e poi tanti video e le musiche del suo fidanzato (di Cunningham) John Cage. Ma soprattutto, interessanti video dell’artista egiziano Basim Magdy, tra cui una storia molto romana di una cittadina decadente e decotta che si candida a ospitare le Olimpiadi, e da quel momento viene sottoposta a ogni genere di piaghe comprese le cavallette, e dunque la cittadinanza decide di tornare indietro nel tempo e celebrare il culto degli antenati e vivere per sempre nel passato.

Invece Chicago, come tutte le grandi civiltà edilizie sorge come new town dopo un tracollo, dunque il mega incendio del 1871 porta alla cultura del grattacielo (e del mattone, mentre in California imperterriti si continua a costruire col legno forse per mantenere la lobby dei vigili del fuoco). E in particolare il quartiere precipuamente architettonico di Oak Park, già quartiere più grande del mondo, sede soprattutto di Frank Lloyd Wright che qui aveva studio e abitazione. Qui si passa all’orizzontale, col paladino e inventore dell’architettura organica che disegna e dissemina tante “case nella prateria” proprio mentre sorgono villini e villoni massimamente verticali e aspirazionali vittoriani. E proprio dallo studio, manifesto di modernità a partire dall’esterno con forme geometriche e giapponesi mentre dentro è soprattutto una rivolta contro “la rappresentanza”, dunque caminetti e stube comunicanti e piccole, il contrario della monumentalità, in una casa planata come astronave modernissima in un villaggio in cui si tentavano signorilità Downton Abbey con colonnati e pronai da Via col vento. Anche, a casa Wright, una domotica impressionante per l’epoca (1896): luci elettriche appena inventate ma già incassate nel soffitto coperte da carta di riso, tipo fratelli Castiglioni; arie condizionate primordiali. La perfetta camera da letto, con armadio a muro e bagno ventilato e illuminato e squarci e tagli di luce per non far vedere abluzioni e wc. E le camere dei figli fatti in quantità, sei, che via via erodono lo spazio destinato allo studio, con fastidio si immagina dell’augusto genitore, che la prole non l’ha mai amata moltissimo, e però come tutti i figli poco calcolati dai genitori questi riusciranno poi benissimo in vita; ecco dunque, come spiega la guida, una discendenza abbastanza geniale, non  solo il figlio Frank Junior discreto architetto che eredita appalti e benemerenze come in tutte le famiglie, ma soprattutto il secondogenito John che inventa il gioco di legno di massimo successo Lincoln Logs (inventato lost in translation in una trasferta giapponese nel 1923, mentre il padre sta disegnando l’antisismico Hotel Imperial di Tokyo, poi demolito); e la nipote attrice Anne Baxter, di cui qui è visibile la culla lignea. Mentre alle pareti enormi passaporti del grande architetto, in formato A3 come usava al tempo, testimoniano i viaggi, col timbro dell’ufficio postale di Oak Park, lì vicino, proprio di fronte al monumentale Unity Temple in stile assiro-babilonese-milanese opera somma di FLW. E in tinello un telefono ottocentesco uguale a quello di Francesco Giuseppe a Schönbrunn. La cassaforte ignifuga, non per i preziosi ma per i disegni (terrorizzato dagli incendi, che se gli spianano la carriera di costruttore sulle macerie, gli distruggeranno però anche la casa di campagna di Taliesin, che va a fuoco almeno due volte, la prima per un incendio appiccato da un servitore pazzo che fa fuori sei persone compresa la moglie, la seconda per un banale cortocircuito). Passeggiando nel quartiere molto gloomy nonostante il clima caldo, suv bianchi e neri scorrono, e tanti cagnetti barboncini scorrazzano, forse discendenti non dei grossi waterdog obamiani ma del piccolo Pepe, cane di casa Wright, qui sepolto con targa commemorativa, non lontano dalla casa di Hemingway però di nessun rilievo architettonico (si dice che la mamma di Hemingway e quella di Wright prendessero il tè insieme da queste parti spettegolando sui vicini). Dalla vita di Frank Lloyd Wright la scrittrice libertaria Ayn Rand trasse poi un celebre bestseller, “La fonte meravigliosa”, poi anche filmone con Gary Cooper, dove però protagonista è indubbiamente il grattacielo.