Ciro Immobile si dispera al triplice fischio dell'arbitro dopo Italia-Svezia (foto LaPresse)

De-nazionalizziamo

Maurizio Crippa

Il disastro degli Azzurri è lo specchio del paese (seppure esiste) che lo ha generato. Come uscirne

De Rossi con la barba da hipster che si incazza con l’assistente del ct che lo vuole mettere in campo (non servo io, serve un attaccante) è la sintesi del disastro sportivo – niente idee, catena di comando in tilt, i pochi talenti buttati via – e lo specchio del paese dal quale è stato generato. Calcio e politica sono metafore reciprocamente abusate e logore. Ma se non ci si vuole rassegnare a parlare di calcio, bisogna pur parlare di politica, o almeno del famoso “sistema paese”, ammesso che ci sia. Il dato di fatto è chiaro: la Nazionale perde perché ha lo stesso Dna dell’Italia. Un inciso preliminare sia permesso. Lo ha scritto Marino Niola, che fa l’antropologo, e lo lascio dire a lui: “E’ sempre una passione sub condicione per una Nazionale senza nazione. L’Italia è una patria intermittente… Il nostro tifo stracittadino è la fotografia di un nazionalismo ad assetto variabile”. L’Italia è un’espressione geografica. Popolata da un popolino e da una presunta classe dirigente che ogni due/quattro anni per un mese si armano di tricolori sgargianti, di notti magiche e slogan caciaroni nell’autoipnotica illusione di essere una nazione, di avere un posto da reclamare nel mondo e persino, Dio li perdoni, un destino manifesto. Sono solo balle, solo il ricasco nello stile Bar Raisport di un sentimentalismo retorico e inetto. In base al quale non si programma niente, non si paga mai un conto, tanto alla fine si vince perché si è un popolo di eroi. Che il turpiloquio del tifo italico se ne stia zitto, questa estate, consentendo a chi voglia di godersi il Mondiale come fosse la Champions quando giocano il Real e il City e non c’è manco un italiano, è il miglior regalo che Ventura ci ha fatto. Ma questo, va da sé, è un inciso personale e si può non condividere.

  

Poi c’è l’aspetto oggettivo, no opinioni, e conviene guardarlo. Non tanto per elaborare il lutto: essere esclusi da una competizione ormai globale e con l’ingresso stretto può capitare, succederà ancora. La Nazionale del disastro è lo specchio del populismo e del poveraccismo, e dei modi di fare delle piccole consorterie che lo dominano. Tavecchio, questo impresentabile scarsamente alfabeta e inadatto è stato messo in un posto più grande di lui e delle sue mene da una specie di assemblea dell’Onu fatta dagli interessi, soldoni o spiccioli, di club e piccoli club, di leghe pro e dilettanti, ognuna portatrice di una sua incompetenza, di una sua resilienza al sistema, di un suo profitto privato. E senza alcuna regia politica e pubblica. L’impresentabile in chief ha poi scelto l’impresentabile in panca, Ventura: “Vogliamo fare qualcosa di straordinario ed entrare nella storia”, disse Tavecchio presentando il ct. Ventura secondo Sconcerti “se ne andrà e sarà punito dall’evidenza della sua inadeguatezza”. Da scolpire nel marmo, ma la vera evidenza è l’inadeguatezza del sistema paese. Ventura non è stato scelto per sbaglio. E’ un allenatore di terza fascia ed è stato preso non soltanto perché costava poco, ma in quanto portatore (in)sano di un’aria da persona per bene, di italiano onesto. Il perfetto incapace ma che non ruba che piace a Grillo. Come a dire: siamo l’Italia, non abbiamo necessità di scegliere, di programmare, di investire e nemmeno di essere bravi. Facciamo finta, poi al momento buono si vedrà. Poveri ma belli, populismo da scemi. Il ministro dello sport, Luca Lotti, ora dice che “il calcio va rifondato del tutto”. Più che altro, bisogna decidere qual è l’Abc. A che serve, la Figc? Che posto vuole avere l’Italia nel calcio mondiale? 

  

Meglio puntare solo sul business professionistico (internazionalizzare, attirare investimenti stranieri, diventare molto ricchi e senza giocatori italiani, ma chissenefrega). Oppure l’Italia pensa di non essere soltanto un ammasso di retorica stracciona ogni due/quattro anni, e decide che le serve una federazione e un sistema calcio? Allora si nominano dei competenti in base agli obiettivi stabiliti a monte. E poi si fa un copia-incolla del sistema adottato dalla Germania, o persino dal Belgio che pure è uno stato malridotto. Centri di selezione e addestramento gestiti e finanziati dal pubblico, in collaborazione tra governo, federazione, club e pure le scuole. Talent scout e formatori, con già un’idea di 4-3-3 o 4-2-4 in testa. In Germania ci sono quasi 400 training camp così. Migliaia di bambini, che poi da adolescenti passeranno nelle scuole d’élite e da lì ai club. In Germania la percentuale di stranieri in Bundesliga è del 52,7 per cento. In Italia del 53,3: non sta lì il problema. E’ di formazione, merito e selezione. I tedeschi vincono spesso, non sempre, ma in meno di vent’anni hanno già sfornato due generazioni di ottimi calciatori, da quella di Lahm e Schweinsteiger a Toni Kroos e Thomas Müller. Ma è come dice la Gabanelli sui centri d’accoglienza: sono una cosa seria, non possono essere affidati ai privati. I grandi geni del Rinascimento non nacquero nel Quattrocento sotto un cavolo, o perché siamo un popolo di santi e navigatori. Nacquero perché nel Trecento c’era stata una magnifica industria culturale, e splendidi artigiani. Non è difficile capirlo né farlo, se l’Italia intende essere un paese e un sistema, e avere un calcio che sia il suo specchio sportivo. Il resto è da una squadraccia da buttare.

 

Poi, certo, ci sono le lacrime amare e da vero uomo di Buffon, le lacrime dei bambini che l’altra sera uscivano da San Siro. Ma quella è un’altra cosa, quella è la vita.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"