Nfl, la protesta anti Trump delle star del football

Perché gli sportivi in ginocchio sfidano Trump

Stefano Pistolini

Il braccio di ferro fra la Casa Bianca e gli atleti americani è la sintesi di una ferita che non trova cura. Fin dove arriverà?

Roma. Se la sparata, condita da qualche fucilazione, l’avesse fatta Kim “Rocket Man”, il suo nuovo nemico giurato, sarebbe sembrato normale. Un dittatore pazzo che inveisce contro il desiderio d’utilizzare la libertà d’espressione garantita da democrazie lassiste come gli Stati Uniti – mica in un paese tutto d’un pezzo come la Corea del nord. Se invece il titolare di questa ennesima sceneggiata è il presidente dei suddetti United States, il mondo strabuzza gli occhi e i connazionali alzano giaculatorie, perché non è ancora chiaro quale sia il limite di fronte al quale Donald Trump imparerà a star zitto. Non che la cosa per lui sia nuova: sull’argomento s’era già sbilanciato nel 2016, ma allora era solo un candidato di belle speranze, vatti a immaginare che ci sarebbe tornato dalle sacre stanze della Casa Bianca.

   

Jacksonville Jaguars v Baltimore Ravens


 

Quando Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers, s’inginocchiò in segno di protesta contro le violenze razziali durante l’esecuzione dell’inno nazionale d’inizio partita, Trump offrì la sua interpretazione dei fatti: “La lega Nfl va male e i suoi ascolti calano in tv, un po’ perché le partite sono noiose. E un po’ perché c’è Kaepernick”. L’intenzione era chiara: solleticare i sentimenti dell’America che sentiva di poter far sua, eccitandone disordinati desideri di revanscismo, genericamente mescolati col patriottismo, il paese-che-non-c’è-più e gli altri “ismi” degli incacchiati nazionali. Trump ormai aveva traslato lo stile e il linguaggio del conduttore dispotico di “The Apprentice”, il suo show tv, in un progetto leaderistico incasinato, rumorosissimo e punteggiato di tweet. Era (e continua a essere) quello che le canta chiare in faccia a tutti, fregandosene delle circostanze. Che salta alla gola dell’avversario, sia pure a bordo di un pretesto sgangherato. In palio c’era e c’è il consesso spazientito dell’America scontenta.

My Brother! United as One! @e_reid35

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E perciò il gioco sarebbe ripreso alla prima occasione possibile, presentatasi allorché il campionato è ricominciato e gli atleti, quasi sempre di colore, hanno ripreso a inginocchiarsi per dire che così non va e che l’America non tiene fede alle sue promesse (Kaepernick no, lui non s’inginocchia più. È stato licenziato, nonostante fosse bravino. È disoccupato. Perché un’America che acconsente alle grida c’è, eccome se c’è). Trump si è rimesso a sparare anatemi, nei discorsi e online: ha detto che quei figli di puttana andrebbero cacciati, che i tifosi dovrebbero boicottare gli stadi, che la lega Nfl dovrebbe epurare i facinorosi. Gli hanno risposto tutti. Con le buone il commissioner della Lega, che ha ricordato il diritto di esprimere le proprie opinioni e la necessità di non essere un fattore di divisione ma di unione, che dovrebbe stare a cuore a un buon presidente. Con le cattive molti atleti spazientiti. Lui ha alzato il tiro, ha ritirato gli inviti alla Casa Bianca ai neocampioni dell’Nba Golden State Warriors, guidati da Stephen Curry, che ha fatto spallucce, mentre il suo collega LeBron James ha preso cappello e ha dato del buffone a Trump.

    

 

Così si è arrivati a una domenica di puro fronteggiamento: intere squadre hanno piegato il ginocchio davanti alla bandiera sulle prime note dell’inno e Trump a urlare ai suoi sostenitori, ecco che l’America sta marcendo, lo spirito di una volta non c’è più, i sacri simboli vengono vilipesi. Da chi, poi? Da strapagati atleti neri. Se lo mormorano a bocca stretta i suoi supporter e i tifosi, in maggioranza proletari bianchi, raccolti attorno ai riverberi di questo falò mediatico. Trump assicura che la razza, per carità, non c’entra. Che è solo questione di amor patrio. Ma questa storia è intrisa di razza, rimette in piazza la storia di un’ingiustizia sociale, che c’è o non c’è. Certo che non c’è, ringhia il presidente. L’America non può essere qualcosa di diverso da ciò che hanno in mente i suoi fan, che mentre parlava ruggivano a brutto muso, nel cuore dell’Alabama. Un posto dove le proteste razziali, va ricordato, venivano risolte rapidamente. Attaccando agli alberi qualche nuovo frutto, anche fuori stagione.