Il Camp Nou, lo stadio del Barcellona (foto LaPresse)

Così il Barcellona è diventato una Disneyland senza identità

Francesco Caremani

Per la sfida alla Juventus in Champions League il Camp Nou, al solito, farà tutto esaurito. Ma a sostenere la squadra di Valverde ci sono sempre meno catalani. E c'è un motivo

Turisti, referendum e Juventus. È questa la triade che assedia Barcellona e la sua anima catalana, senza dimenticare la ferita perpetua che il terrorismo islamico ha tracciato sulla Rambla. Alla vigilia della sfida di Champions League contro i bianconeri – diventata oramai un appuntamento fisso, antipasto, happy hour o cenone poco importa – e con il pensiero al 2021, anno in cui giro d’affari del club catalano dovrebbe superare il miliardo di euro (708 milioni nella stagione 2016-17), i blaugrana si guardano distrattamente allo specchio per scoprirsi més que una marca (brand) piuttosto che més que un club. Lo ha candidamente affermato Didac Lee, spagnolo con genitori taiwanesi, membro del board del Barça che si occupa delle nuove tecnologie: “La Disney ha Mickey Mouse noi abbiamo Lionel Messi, loro hanno Disneyland noi il Camp Nou, loro producono film noi contenuti. È inutile guardare cosa fanno gli altri club, noi oggi siamo in un’altra dimensione”. Gli fa eco Laurent Colette, direttore marketing della società dal 2010 al 2015, che ha ricoperto lo stesso ruolo alla Roma negli ultimi due anni: “Come Disney, il Barcellona ha costruito il suo successo sull’autenticità, con eroi veri. Quando sono arrivato (2003, ndr) i dirigenti non si rendevano conto della dimensione internazionale del club e il loro obiettivo principale era quello di soddisfare i soci, il cui 85 per cento vive a meno di un’ora e mezza di macchina dallo stadio”. Nel 2003 la biglietteria portava nelle casse blaugrana 3 milioni di euro, oggi sono diventati decine di milioni.

  

Il museo del Barcellona, che trovate in quasi tutti i pacchetti turistici, attira poco meno di 1,8 milioni di visitatori l’anno, 5.600 al giorno, 600 l’ora, con ricavi per 40 milioni di euro. Il secondo più visitato di Spagna dietro quello della regina Sofia e del Prado, primo in Catalogna davanti a Dalì e Picasso. Come per la Sagrada Familia, è consigliabile comprare i biglietti su internet scegliendo l’ora in modo da evitare le code estenuanti per prenotarsi. I biglietti vip del match contro il Real Madrid, giocato lo scorso dicembre, sono stati venduti da un minimo di 590 a un massimo di 2.100 euro, mentre gli abbonamenti e i contributi dei soci valgono 45,5 milioni. Pablo Palacio ha cinquant’anni, suo padre l’ha iscritto come socio a quindici e ricorda l’epoca di Maradona e Schuster, quella del Dream Team di Cruijff e i primi anni Duemila: “Ecco, fino ad allora conoscevo le persone che sedevano intorno a me, oggi la maggior parte sono sconosciuti e cambiano ogni fine settimana”.

 

I soci sono 150.000 e pagano 177 euro l’anno, per votare, per altri benefit ma non per godere del diritto di vedere la partita, in uno stadio da 99.354 posti, il più grande d’Europa. Un socio che segue il match spende una media di 64 euro, un turista, tra biglietto, museo e merchandising, può arrivare a spenderne 460 in meno di ventiquattro ore. Quello che sta accadendo a Barcellona potrebbe essere definito gentrificazione da stadio o del tifo, alzo l’asticella e attiro un pubblico diverso facendo crescere merchandising, brand e ricavi insieme con il malcontento dei soci e di chi ha il Barça nel cuore e non solo nel portafoglio, di chi soffre per le sue sconfitte invece che sbavare per portarne a casa un pezzo. Senza contare quello che ci hanno raccontato in tutti questi anni del més que un club ovvero di una squadra di calcio utilizzata a corrente alternata come strumento politico che sponsorizza l’indipendenza.

 

Alcuni soci hanno formato un comitato, l'FCB Seguiment, con una pagina Facebook dove confrontano le proprie esperienze e la propria frustrazione, come quella di dover pagare 18 euro per farsi la foto con la Champions League come un turista qualunque. Comitato formato soprattutto da coloro che non sono abbonati e che rappresentano la terza classe del tifo blaugrana, preoccupati che ai gruppi autoctoni si sostituiscano sempre di più gli stranieri che arrivano grazie ai pacchetti turistici. Lo scorso 4 dicembre hanno scritto una lettera ufficiale alla direzione del Barcellona per denunciarne la presenza massiccia nella partita contro il Real Madrid, il Clasico, lanciando l’hashtag #RecuperemelCampNou. Anche Andrès Iniesta si è lamentato del tifo, aprendo la ferita dall’interno, e ora è chiaro a tutti che si dovrà trovare un equilibrio tra crescita e business da una parte, soci e calore del pubblico dall’altra. Molti, poi, confondono l’idea di socio con quella del tifoso che incide sulle scelte della società, il socio vota, è vero, ma finisce lì e questa querelle dimostra quanto il Barcellona sia lontano dall’idea di azionariato popolare. Senza dimenticare l’impatto economico sulla città, stimato in oltre 900 milioni di euro, l’1,5 per cento del pil di Barcellona, con 16.000 dipendenti e 2,3 milioni di tasse versate alla municipalità. Un business irrinunciabile per tutti.

 

Anche per i tifosi blaugrana. Gli abbonamenti annuali oscillano da 130 a 900 euro e non sono tra i più cari d’Europa (considerando i cinque maggiori campionati), più 177 per il carnet socio, obbligatorio per sottoscrivere l’abbonamento. Cifre che aprono la strada al mercato nero dei biglietti, che possono essere rivenduti a 500 euro a partita, cosa che accade pure in Italia, con i club che hanno diritto a un determinato numero di biglietti che spartiscono tra gli abbonati o che vengono subaffittati (con somme più modeste). In pratica bastano tre match di cartello per guadagnare sull’investimento d’inizio stagione. Al momento del pagamento viene consegnato un protocollo di comportamento in inglese in modo che il turista non si tradisca e non tradisca chi gli ha ceduto il posto. In Italia il problema nemmeno si pone, nonostante tessere del tifoso e tornelli. Di fatto la pratica è tollerata dal Barcellona che in questi ultimi vent’anni ha guardato più alla crescita economica che a rafforzare l’identità catalana, nonostante a parole sembri il contrario. In sintesi, l’accostamento con la Disney è azzeccato, l’autenticità è una favola, i soldi la realtà.

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