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Avrà ancora senso la MotoGp dopo Valentino Rossi?

Giovanni Battistuzzi

L'infortunio del Dottore in allenamento ha dimostrato ancora una volta come il motociclismo, almeno in Italia, sia ancora volenti o nolenti rossicentrico

Una moto da enduro, un tratto di strada sconnessa, la moto che si imbizzarrisce, una pietra, l'urto, la gamba che si spezza. Il pomeriggio di Valentino Rossi doveva essere un semplice allenamento sulle strade delle Marche, è diventato un saluto temporaneo alle corse, un arrivederci, o almeno così sperano i tifosi, alla lotta per il Mondiale di MotoGp. Quaranta giorni di stop, o forse meno, perché il Dottore, ancora alle prese con i postumi dell'operazione che gli ha ridotto la frattura a tibia e perone della gamba destra, in un comunicato della Yamaha, ha fatto sapere che "ora voglio tornare sulla mia moto il più presto possibile. Farò del mio meglio affinché succeda". Parole simili a quelle del 2010, quando al Mugello si fratturò la stessa gamba. Sette anni in più possono essere un problema, ma per storia e per testardaggine, quanto meno la controprova va aspettata, la fiducia va concessa. E così se per Misano, Gran Premio di San Marino e della Riviera di Rimini in programma tra nove giorni, non ci sono speranze, e per Aragon, Gran Premio di Aragona in programma il 24 settembre, anche, ma chissà, per metà ottobre a Motegi, Gran Premio del Giappone, il ritorno in pista ci potrebbe anche essere.

 

Ed è una buona notizia. Non solo per Rossi, per tutto il motociclismo, almeno per quello italiano.

 

Perché indipendentemente dai risultati, che vedono Andrea Dovizioso in sella a una Ducati in testa al Motomondiale con 9 punti di vantaggio su Marc Márquez, Valentino rimane il centro gravitazionale della passione motoristica nostrana. Lo si è visto sui giornali, sulle televisioni e nei social network. Una pietra ha rivelato come attorno a Rossi sia ancora concentrato l'interesse di un paese. Non una novità, certo, ma l'ennesima dimostrazione di come il pilota di Tavullia sia riuscito a superare i limiti di una nicchia sportiva, quella motoristica, per diventare simbolo nazionale. E questo nonostante l'ultimo titolo iridato del pesarese disti otto anni, stagione 2009, una vita, almeno sportiva, fa. In mezzo l'infortunio del 2010, i due anni di crisi in Ducati, il ritorno alla Yamaha, il "biscotto" spagnolo del 2015, con la ginocchiata a Márquez in Malesia e l'ultimo posto in griglia a Valencia che era condanna alla sconfitta finale.

 

In tutti questi anni l'interesse non era tanto per i risultati dei gran premi, quanto per la posizione di Rossi. Se vinceva ecco il titolo d'apertura, e non solo nella stampa sportiva, se non ci riusciva ecco la specifica del suo posizionamento, l'inseguirsi e il susseguirsi di analisi su quanto fosse finito, oppure su quanto potesse essere ancora protagonista. E questo nonostante un movimento che offriva anche altri buoni, se non ottimi piloti. Perché Dovizioso, Iannone, Melandri e compagnia, in questi anni sono saliti sul podio e qualche volta hanno vinto, ma non abbastanza, non come lui.

 

E anche quest'anno che il ducatista forlivese è in testa al Motomondiale il discorso si ripete, l'Italia si ritrova, nel bene o nel male rossicentrica. O con lui, ad auguragli una pronta guarigione, o contro di lui, a ricercare piloti da tifare, siano essi italiani oppure in sella alla rossa di Borgo Panigale. Il resto? Semplicemente non esiste.

 

Rossi a 38 anni e con due ossa rotte cercherà di rimettersi in piedi e di risalire in moto, non è chiaro ancora con quale ordine. Rossi a 38 anni ha un futuro agonistico limitato. Siano ancora pochi mesi o qualche anno chissà. Poi rimarrà solo una domanda: ci interesserà ancora il motociclismo o ritornerà a essere una passione di una minoranza di amanti della moto?

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