Francesco Totti ieri all'Olimpico (foto LaPresse)

La nuova esistenza di Francesco Totti

Leo Lombardi

Il capitano abbracciato da 60 mila spettatori in uno degli addii al calcio più commoventi. Nel suo messaggio ai tifosi ammette, ora, di avere paura. Ma non sarà solo nel suo nuovo cammino

E' stata una settimana insolita per il calcio italiano. Come definire altrimenti avvenimenti cui non eravamo più abituati, presi come siamo dal cinismo o dal calcolo. Prima, a Torino, quella sequenza ininterrotta di persone che si sono messe pazientemente in attesa per tornare ad abbracciare lo stadio Filadelfia. Certo, non è più quello che celebrava le sorti straordinarie di capitan Valentino Mazzola e dei suoi formidabili compagni. Il segno dei tempi e la miopia delle amministrazioni pubbliche avevano cancellato quello che da altre parti avrebbero conservato gelosamente. Ma se l'impianto è contemporaneo, il luogo è rimasto lo stesso: talmente ricco di ricordi da non poterlo non amare. Poi, a Roma, altre settantamila persone hanno riempito lo stadio Olimpico e c'è da scommettere che avrebbero occupato spazi ancora più ampi se fossero stati disponibili. I biglietti per la partita contro il Genoa erano andati esauriti ben prima del tempo, già comprati ancor prima che i giallorossi incontrassero la Juventus. C'era da rendere omaggio a un giocatore che salutava, c'era da rendere omaggio a Francesco Totti. Il numero 10, il capitano. Questo valeva molto più dei novanta minuti in cui affrontare un'avversaria di terza fascia e in cui difendere il secondo posto dall'ultimo assalto del Napoli. Per carità, da questo punto di vista la missione è stata compiuta: vittoria, un po' faticata, e anche un gol per Edin Dzeko, andato a conquistare la classifica marcatori con 29 reti, alla faccia di chi in estate ne invocava la cessione.

 

Ma tutto questo veniva dopo di lui, dopo Totti. Un abbraccio commosso a fine partita, in cui tutto ha funzionato come ci si aspettava, compresi i fischi al presidente James Pallotta, l'uomo che ha messo fine alla parabola sul campo del campione giallorosso. E quindi i ringraziamenti al pubblico, le lacrime sincere (sue, dei compagni e dello stadio tutto), il passaggio della fascia a Daniele De Rossi, il giro a salutare, i figli tenuti per mano e Ilary Blasi sempre al fianco, perfetta riedizione pallonara di una coppia complementare alla Vianello&Mondaini, i buffetti ai ragazzini, la lettera ai tifosi. La celebrazione di un calcio che non c'è più, quello che sa essere sinceramente riconoscente verso chi è stato la bandiera di una squadra. Altri salutarono dopo lunga militanza, ma l'addio di Paolo Maldini al Milan venne macchiato dalla polemica con i tifosi (o una certa parte) e quello di Alex Del Piero alla Juventus venne in tutti i modi sabotato dalla società, che non vedeva l'ora di disfarsi di uno che non voleva sapere di andarsene via. E' vero, anche con Totti il gioco delle parti è stato lungo e, a volte, insopportabile. C'è voluto uno che veniva da fuori, come il nuovo ds Monchi (uno spagnolo), per tracciare una linea e dire basta: ora si cambia. Totti ha capito e ha fatto in modo che il congedo fosse sì doloroso, ma gioioso al tempo stesso. E non avrebbe potuto essere diversamente per uno cui hanno ripetuto fino allo sfinimento che avrebbe vinto molto di più se avesse deciso di andare a giocare altrove: lui aveva scelto il cuore e non la professione. Detto poi che, comunque, si parla di un campione del mondo, resta da capire se Totti sarebbe rimasto Totti da altre parti. Perché lui è l'incarnazione della Roma e della romanità, quello che ricordava ai laziali “di averli purgati ancora”, quello che agli juventini indicava il quattro con le dita della mano (i gol presi) e li invitava a togliere in fretta il disturbo con un gesto eloquente della mano, quello che non si è mai tirato indietro dalle responsabilità nei momenti che contavano: basti ricordare il rigore decisivo contro l'Australia all'ultimo secondo utile al Mondiale tedesco.

 

Quello di Totti è stato (e sarà) un rapporto filiale con la città in cui è nato. Lui è cresciuto a Roma e nella Roma. Un cammino che in serie A era stato avviato a 16 anni, nel 1993, contro il Brescia, e si è concluso domenica, a 40 anni abbondanti. Un solo scudetto (nel 2001), un paio di Coppe Italia e un paio di Supercoppe, sempre italiane. Allenatori che lo hanno adorato (Carlo Mazzone), altri che lo hanno esaltato (Fabio Capello), altri che avrebbero voluto cederlo (Carlos Bianchi) e altri che non lo avrebbero voluto tra i piedi (Luciano Spalletti). Lui è passato attraverso tutto questo, con cucchiai dagli undici metri e punizioni da applausi, con gol decisivi e con idee geniali. Soprattutto con un disincanto tale da renderlo il primo a prendersi in giro. Tutto questo è finito, inizia una nuova esistenza. Totti ha confessato a uno stadio intero di avere paura. E' il momento di rimettersi in cammino, e il viaggio non sarà solitario.

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