LaPresse/Nicolò Campo

Guardare l'inaugurazione del Filadelfia e capire che quella granata non è fede laica

Piero Vietti

Riaperto dopo 20 anni lo stadio che fu del Grande Torino. Quel segno di croce all'inizio della cerimonia e l'idea non retorica di un popolo.

Il calcio è il regno della retorica, o almeno è rimasto uno dei pochi ambiti in cui si può esagerare senza risultare ridicoli. Parole come fede, popolo, storia, eroe, tragedia, impresa, possono essere associate a una squadra, una tifoseria o una partita senza che la cosa appaia fuori luogo. Fa parte del gioco, retorico appunto, con cui abbiamo imparato a sentirci raccontare questo sport come analogia della vita. I nostalgici giurano che il calcio moderno è inadeguato a essere descritto con parole tanto profonde, ma la pigrizia e il sentimentalismo che ci muove quando si parla di pallone impediscono di trovarne di nuove, magari fredde ma più calzanti. Nel mondo che ha sostituito i tifosi con i clienti, la fede con il brand, le plusvalenze con gli eroi e gli incassi televisivi con le imprese, faceva un effetto strano vedere, ieri a Torino, migliaia di persone in fila per assistere all’inaugurazione di un campo di allenamento. Certo, il campo non era un campo qualunque, così come la squadra non era una squadra qualsiasi. A vent’anni dalla sua chiusura e successiva demolizione, lo stadio che fu del Grande Torino è stato ricostruito e riaperto. Ospiterà gli allenamenti della squadra granata e le partite della Primavera, in futuro anche una foresteria, il museo e forse la sede del club.

 

All’inaugurazione del nuovo stadio Filadelfia non ci sono stati show roboanti, né hashtag in inglese per diventare trending in tutto il mondo. Anzi, la cerimonia è iniziata con quelle migliaia di persone, le autorità e i giocatori in silenzio, a farsi un segno di croce prima di ascoltare un prete che pregava Dio e benediceva il campo e i presenti. Il fatto curioso è che a nessuno è sembrata una cosa sbagliata o fuori luogo. Nel 2017, a Torino. E’ anche per dettagli come questo che quando ci si riferisce ai tifosi granata non è retorico parlare di popolo.

    

Per definirsi tale un popolo ha bisogno di un momento fondativo. Per il Torino è innanzitutto l’incidente aereo di Superga, e poi una serie di drammi che ne hanno segnato la storia. I tifosi del Toro sanno di essere legati tra loro per quello, non solo per le vittorie, che cominciano ad avere qualche anno di troppo. Ma non è retorico neppure parlare di fede, e non soltanto perché quella granata è una sorta di “religione laica”, ma perché proprio alla fede religiosa è legata per storia e radici. Ogni anno il 4 maggio migliaia di persone salgono sulla collina di Superga per assistere alla messa in ricordo dei giocatori del Grande Torino, poi vanno tutti a dire un Eterno riposo davanti alla lapide. Per anni a celebrare c’è stato don Aldo Rabino, cappellano della squadra, idolo dei tifosi, a cui era concesso fare paragoni che non suonavano stonati tra la resurrezione di Gesù e il cuore granata che non muore mai. Era uno di noi, don Aldo, così come oggi il suo successore don Riccardo Robella, il sacerdote che ha benedetto ieri il Filadelfia. Nelle ore in cui, anni fa, la figlia di uno storico tifoso del Torino lottava in coma prima di morire, centinaia di persone si ritrovarono tra i ruderi del Filadelfia per recitare un rosario e chiedere un miracolo. Un’immagine diversa da quelle che siamo soliti avere del calcio moderno. E una festa come quella di ieri, con tanti ex del passato che piangevano tornando in quella che per generazioni di giocatori e tifosi è stata casa, ci dice che parlare di popolo, oggi, riferendosi a una tifoseria, non è sempre esagerato.

  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.