Isaiah Thomas (foto LaPresse)

Isaiah Thomas e le vittorie dal basso

Eugenio Cau

Il campione di basket più piccolo del mondo ha una storia tutta americana di riscatto e predestinazione

Il basket è uno sport verticale, bisogna essere alti. Non c’è sport professionistico in cui gli atleti non debbano avere doti speciali, fisici ingegnerizzati, ma nel basket la genetica non lascia scampo. Nel campionato più forte del mondo, l’Nba americana, se sei sotto al metro e novanta sei invisibile, nessuno ti darà mai una possibilità. Isaiah Thomas è alto un metro e settantacinque. Per gli standard dell’Nba è un nano. Quando lo vedi in campo, con quel fisico tarchiato, pensi che gli altri nove giocatori alti almeno due metri e con i muscoli di un branco di squali lo schiacceranno. Ma Isaiah Thomas è una stella dell’Nba. Una stella di prima grandezza, il miglior marcatore e il trascinatore della sua squadra, un leader rispettato dai compagni, che quasi si devono chinare per dargli una pacca sulla schiena. La squadra di Thomas, i Boston Celtics, gioca in questi giorni i playoff dell’Nba. Quasi sicuramente non vincerà il campionato, ma ha già fatto meglio di tutti i pronostici grazie al suo leader-nano.

Nell’America sempre in cerca di storie edificanti, quella di Thomas è diventata già una leggenda, un racconto straordinario di tenacia e predestinazione, che comincia dal nome: suo padre James Thomas, vecchio appassionato di basket, perse una scommessa con il suo migliore amico e chiamò suo figlio Isaiah come Isiah Thomas (cambia solo una a), uno dei giocatori più famosi degli anni Ottanta. Thomas ha un talento pazzesco, a tredici anni è già più forte dei giocatori adulti del campetto di quartiere, ma ha un problema: non cresce. Suo padre non arriva al metro e settanta e la genetica non gli fa regali. Alle scuole medie, per la disperazione, Isaiah passa ore appeso a testa in giù a una barra di metallo per fare allungare le ossa con la forza di gravità. Non serve a niente, ma Isaiah non molla. Diventa una stella del campionato liceale, poi del campionato universitario. Trascorre infinite ore al giorno in palestra ad allenare la sua tecnica e la sua forza di volontà, trascura la scuola e qualunque altra cosa. L’Nba però non è ancora convinta. Nessuno alto così ce la può fare. Viene preso come ultima scelta, per riempire un buco in panchina. La sua prima squadra lo scambia per un altro giocatore dopo due anni. Uguale la seconda. A Boston il suo allenatore crede in lui, e il suo talento esplode. Guardare una partita di Isaiah Thomas e vedere un uomo-bambino dominare sui giganti lascia senza fiato. E’ un giocatore letale, spettacolare, e la sua storia lo ha trasformato in una leggenda. Ad aprile, mentre già Boston giocava i playoff, la vita di Thomas, toccata dall’incredulità e dalla sfiducia degli altri, è stata sfiorata anche dal lutto. Sua sorella ventenne è morta all’improvviso in un incidente stradale. Un dolore così devastante ti fa venire la voglia di mollare tutto. Il più grande giocatore di basket di tutti i tempi, Michael Jordan, lo fece quando morì suo padre: per due anni abbandonò la sua squadra e si diede al baseball. Ma Thomas ha saltato una partita sola, è sceso in campo subito dopo il funerale, quella sera ha segnato 33 punti e si è rotto un dente cercando di rubare la palla a uno dei giganti. “Mai nella mia vita ho pensato di mollare”, ha detto alla fine.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.