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I meriti di Mihajlovic che ha reso Ljajic un giocatore e i demeriti delle milanesi

Leo Lombardi

Il Torino ferma la Juventus grazie a una grande punizione del serbo, mentre Milan e Inter continuano a perdere. Il punto sulla 35esima giornata di serie A

Se l'avesse tirata Lionel Messi, quella punizione andata a morire all'incrocio dei pali, ci avrebbero fatto due palle così non si sa per quanto tempo, tra iperboli verbali dei telecronisti e immagini vivisezionate dagli opinionisti. Invece l'ha calciata semplicemente Adem Ljajic, che non solo è Adem Ljajic per l'appunto, ma gioca nel Torino, che non è il Barcellona. Due condizioni che creano una differenza di immagine che fa dimenticare la sostanza. Perché il Torino (questo Torino) è stata la squadra capace di interrompere una serie di 33 vittorie interne della Juventus, le 17 di questa stagione e le 16 di quella scorsa. E chissà in che cosa avrebbe potuto materializzarsi quell'1-1 beffardo se le scelte infelici dell'arbitro Valeri (vedi i due cartellini gialli ad Acquah) non avessero trasformato Mihajlovic in un Di Battista qualunque, pronto a insultare ogni essere vivente gli capitasse a tiro, manco fossero dirigenti Alitalia. Ora al tecnico serbo ci penserà la giustizia sportiva, inesorabile quando si attenta all'autorità costituita, mentre il pentastellato individuerà impunito nuovi obiettivi. Nel frattempo, magari, qualcuno si ricorderà della testardaggine di Mihajlovic nel tentativo i trasformare un atleta indolente come Ljajic in un giocatore vero. E gliene darà atto. Perché è sempre stato un problema coltivare il talento nella Jugoslavia che fu, soprattutto nel calcio. Nel basket si è facilitati, e i successi lo raccontano: le partite sono più intense con il tempo reale, il contatto con la panchina è pressoché continuo, tra vicinanza in campo e timeout. In questo modo puoi controllare sempre i giocatori. Nel calcio no, uno si perde su campi così grandi e in cui ci si può splendidamente isolare, soprattutto nelle zone opposte alla panchina. Ma Mihajlovic è stato un martello con Ljajic, fin da quando lo rimproverava ai tempi di Firenze di mangiare troppa Nutella oppure lo teneva fuori dalla Nazionale serba perché non cantava l'inno (Ljajic è bosgnacco, ovvero un serbo musulmano: complicato per lui pronunciare certe parole dopo il conflitto che ha cancellato la Jugoslavia). Un rapporto di odio-amore proseguito anche al Torino, dove a un certo punto il giocatore sembrava fuori dalle traiettorie granata. Troppo indolente per essere decisivo, troppo discontinuo per giustificare i quasi nove milioni pagati alla Roma per accontentare la richiesta dell'allenatore: il rigore tirato maldestramente tra le braccia di Donnarumma a metà gennaio era parsa la pietra tombale, come la rissa in panchina con Delio Rossi quando giocava nella Fiorentina. Mihajlovic invece non si è arreso, fino all'intuizione giusta. A inizio aprile propone un nuovo Torino e un Ljajic, non più attaccante ma trequartista, libero di spostarsi sul fronte della prima linea. Meno attenzioni del marcatore diretto e più libertà per lui. Come capita a Messi nel Barcellona, per l'appunto. Con la differenza che Ljajic ha fatto gol contro la Juventus, il fenomeno argentino e il Barcellona no.

 

Un finale di campionato che non regala soltanto novità, ma propone pure forme di continuità inattese. E disarmanti. Come il cammino imbarazzante delle due milanesi, una serie negativa che magari comincia a porre qualche dubbio dietro i volti abitualmente enigmatici delle due proprietà cinesi. Il Milan è però andato oltre la povertà di due sessioni di mercato prive di investimenti reali. L'Inter, invece, sta svalutando un patrimonio giocatori teoricamente superiore e che si sta piuttosto rivelando paccottiglia. Come merci cinesi a basso prezzo. A Genova è andato in scena l'ultimo (ma chi può dirlo?) atto di un campionato imbarazzante: quinta sconfitta in sei partite, sette gare senza vittorie (il record di otto partite risale al 1947/48: manca poco) e una classifica che regala un futuro senza Europa, con sospetti maligni di un obiettivo appositamente perseguito. Stavolta è toccato ad Antonio Candreva ricoprire il ruolo di protagonista negativo, con il rigore del possibile pareggio contro il Genoa calciato in maniera indegna. Un tentativo di trasformazione diventato paradigmatico di una prova collettiva. Non una squadra, ma un gruppo di persone indecise a tutto, senza una guida sul campo e fuori del campo. Apprestiamoci all'ennesima rifondazione estiva, che si profila ancor più profonda, viste le disponibilità economiche di Suning. Ma se non seguirà linee guida chiare, a Torino (fronte bianconero) possono già mettere in ghiaccio lo champagne per lo scudetto consecutivo numero sette.