Franco Chioccioli al Giro d'Italia del 1991 (foto di Anders via Flickr)

Franco Chioccioli e l'ossessione dell'erede di Coppi: meno 26 al Giro100

Giovanni Battistuzzi

Al Giro d'Italia del 1991 il corridore toscano riesce finalmente a conquistare la Maglia Rosa. Lo chiamavano Coppino, perché del Campionissimo aveva i tratti del viso, perché il ciclismo allora non aveva ancora superato la morte dell'Airone

Era il 1991 e il ciclismo non aveva ancora metabolizzato l’addio dell’Airone. Fausto Coppi era morto il 2 gennaio del 1960, a quaranta anni, ancora corridore. Quel 1960 doveva essere la sua ultima stagione, un addio continuo. Fausto Coppi era stato per il ciclismo italiano avanguardia e passione, vanto, mentre correva, rimpianto in seguito. Il Campionissimo era stato il ciclista più forte del mondo, un mito nazionale. Talmente eccezionale che era impossibile pensare a un futuro senza un suo erede, qualcuno che ne avrebbe seguito le gesta.

Ercole Baldini fu il primo ad essere considerato capace di avvicinare il Campionissimo. Era il Treno di Forlì, potenza allo stato puro. Conquistò il Record dell’Ora ancora dilettante, vinse il suo primo Giro al secondo anno da professionista, nel 1958. Pochi mesi dopo superò tutti al Mondiale. Ci pensò un’operazione di appendicite a bloccarne l’ascesa. Poi arrivò Romeo Venturelli, il prescelto da Coppi, un talento fenomenale. Lo volle nella sua squadra, l’avrebbe voluto lanciare. Al Giro del 1960 si prese il lusso di battere a cronometro Jacques Anquetil, il cronoman più forte dell’epoca. Fu il suo unico successo nella corsa Rosa. Preferì alle corse le mangiate, gli amici, le donne.

 

Guido Carlesi di Coppi aveva la potenza e le sembianze. Bertoglio il nome, Fausto, e lo spunto in salita. Franco Chioccioli ne aveva il naso, lo sguardo e i lineamenti del viso. A tratti la possibilità di andare forte ovunque. Lo chiamarono Coppino. Quando scalava le salite, seduto sulla sella e perfettamente curvo sulla bicicletta, lo ricordava, di Coppi ne assumeva le sembianze. Al Giro d’Italia del 1991 ne ricalcò pure la capacità di essere il più forte.

 

Franco Chioccioli aveva trentun anni e alle spalle ancora i fantasmi della corsa di tre anni prima, la discesa del Gavia sotto la neve, il quasi congelamento, la Maglia Rosa che se ne era andata, la certezza di aver subito un’ingiustizia. Vide Fignon e Bugno vincere, poi decise che sarebbe finalmente arrivato il suo momento. Per diciannove tappe su ventuno rimase in testa alla classifica, superò gli altri ovunque. Lo fece sugli strappi appenninici, verso Scanno quando già in Rosa concesse la vittoria a Marino Lajarreta, sulle Alpi piemontesi quando controllò gli scatti e i controscatti dei rivali non perdendo un metro.

Non bastava però. Perché Chioccioli “ha sempre avuto un momento storto”, perché Chioccioli “sta facendo cose egregie, ma potrebbe subire i passi dolomitici”. Così Franco Chioccioli decise che le Dolomiti sarebbero state il suo palcoscenico finale, ma che già prima doveva dimostrare la sua superiorità. E così sulle rampe del Mortirolo, in Maglia Rosa, a cinquanta chilometri dall’arrivo decise di salutare tutti, di involarsi. Lo videro al traguardo quasi un minuto dopo. Un minuto e mezzo sul secondo e due sul terzo erano però distacchi colmabili. Così decise di non lasciare dubbi. Sul Passo Pordoi due giorni dopo replicò. Seconda vittoria e la sensazione che se avesse voluto infierire il margine sarebbe stato ancora maggiore.

Franco Chioccioli quel Giro lo vinse, primeggiò anche nell’ultima cronometro. Fu l’unica grande corsa a tappe che vinse. In quel 1991 dimostrò a tutti quel era e soprattutto poteva essere stato. A fregarlo furono la riservatezza, l’incapacità di diventare divo e quella di provare a stravolgere la sorte.

 

Vincitore: Franco Chioccioli in 99 ore 35 minuti e 43 secondi;

secondo classificato: Claudio Chiappucci a 3 minuti e 48 secondi; terzo classificato: Massimiliano Lelli a 6 minuti e 56 secondi;

chilometri percorsi: 3.715.