Foto di Deni Williams via Flickr

Acacio Da Silva e il senso dell'arrembaggio: meno 31 al Giro100

Giovanni Battistuzzi

Cosa c'entra la storia marina del Portogallo con le due tappe conquistate dal corridore lusitano al Giro del 1986?

Acacio Da Silva aveva la faccia sempre sorridente e attenta, di chi ascoltava e lo faceva con interesse. Acacio Da Silva era però anche portoghese, anzi soprattutto portoghese, e aveva appreso dai suoi avi l’insegnamento di come si va per mare, il su e giù delle onde, l’arrembaggio, la difesa, la scelta della rotta. Non che per mare ci fosse mai andato, ma “le cose si sanno molte volte per sentimento, non sempre per esperienza, le cose si sanno per prossimità a chi le ha vissute e provate e viste e quando capita a chi deve capitare ecco che queste le si sanno fare perché uno ce le ha dentro”, scrisse lo scrittore e poeta portoghese Miguel Torga.

 

Acacio Da Silva l’arrembaggio se lo sentiva dentro, sarà forse per avi pirati, sarà forse per una certa disabitudine all’ordine, sarà che della dittatura di Salazar in tanti gli avevano riempito la testa di echi rivoluzionari, sarà soprattutto per uno spirito fieramente anarchico.

Al Giro d’Italia del 1986 alla Malvor di capitani non ce ne erano e Dino Zandegù dall’ammiraglia aveva dato libero spazio a chiunque. L’obiettivo era uno e uno solo: far vedere lo sponsor. Acacio Da Silva prese le parole alla lettera e avanguardista provò a diventarlo subito. Erano però tappe quelle, le prime, dove le squadre dei velocisti tiravano per le volate e quelle dei grandi corridori facevano altrettanto perché le strade del sud sono insidiose e ci vuole un attimo a perdere minuti.

 

E così arrivò il 20 maggio, arrivò la prima occasione utile e verso Rieti, con il Terminillo e La Forca a segnare il passo, il sorriso di Acacio Da Silva si ritrovò in testa, a fare ritmo come se solo pestare sulle pedivelle riuscisse a tranquillizzare il suo animo inquieto. Il portoghese attaccava e Alfio Vandi e Marco Giovannetti però non si staccavano. Né in salita, né in discesa, né in pianura. Dovette infilarli allo sprint. Disse: “Sono contento, ma avrei preferito arrivare solo”. Anche l’arrembaggio ha bisogno di un minimo di sicurezza.

 

Da solo non riuscì a finirci neppure a Bolzano dopo averle provate tutte a staccare gli altri su Rolle, Pordoi, Campolongo e Gardena. Niente. Alessandro Paganessi e Niki Ruttimann non si levavano. Dovette beffare anche loro allo sprint.

 

Quel Giro lo chiuse settimo, come mai aveva fatto prima. Commentò: “Sì però se fossi arrivato solo sarebbe stato meglio”.

 

Vincitore: Roberto Visentini in 102 ore, 33 minuti e 55 secondi;

secondo classificato: Giuseppe Saronni a 1 minuto e 2 secondi; terzo classificato: Francesco Moser a 2 minuti e 14 secondi;

chilometri percorsi: 3.858.