Francesco Moser all'Arena di Verona (foto LaPresse)

La perfezione di Francesco Moser: meno 34 al Giro100

Giovanni Battistuzzi

Nella cronometro finale di Verona il trentino ribalta il Giro d'Italia del 1984. L'annata incredibile iniziata con il Record dell'Ora e quella maledizione sfatata

Si erano attaccati e ripresi, involati e raggiunti, corsi e rincorsi. Si erano divisi e passati il testimone Rosa del primato. Così per ventuno tappe e ventitré giorni, così senza sosta da Lucca, partenza della corsa, a Soave, partenza dell’ultima tappa. Da percorrere c’erano solo 42 chilometri, gli ultimi 42 chilometri del Giro d’Italia 1984 e ottantun secondi dividevano Laurent Fignon e Francesco Moser. Il primo Maglia Rosa, il secondo lo sfidante. Il primo ventitré anni, secondo anno da professionista, un Tour de France già messo in bacheca e una carriera davanti che sembrava inarrestabile. Il secondo trentatré anni, decimo anno da professionista, un Record dell’Ora conquistato pochi mesi prima dall’altra parte del mondo e una carriera alle spalle incredibile, ma che sembrava dire solo una cosa: il Giro non lo potrai mai vincere.

 

Mancavano solo quei 42 chilometri e tutto sembrava dovesse andare secondo copione. Troppi quei ottantun secondi da rimontare per Moser da uno che a cronometro, soprattutto a fine Giro, soprattutto dopo quello che aveva fatto sulle Dolomiti, sapeva difendersi egregiamente. E poi ne erano certi quasi tutti, Moser era ormai un quasi ex corridore, le sue occasioni di vincere una grande corsa le aveva avute e non le aveva colte. Era tutti pronti a fare festa al francese. Tutti tranne uno, tranne lui: Francesco Moser. 

 

Il trentino aveva un’unica possibilità per battere il francese, per salire sul gradino più alto del podio dentro l’Arena di Verona: essere perfetto. Come lo era stato a Città del Messico per un’ora il 19 gennaio 1984: 50,808; come lo era stato quattro giorni dopo sempre in quel velodromo: 51,151.

Era salito sulla pedana di partenza e al tre-due-uno si era gettato in mezzo a quel serpentone di persone che si erano radunate a bordo strada per quell’ultima frazione. Una folla incredibile, quasi mezzo milione di persone. Moser pedalava e pedalando dimenticava Selva di Val Gardena e il minuto recuperato da Fignon verso Selva di Val Gardena, tre giorni prima; dimenticava il Passo Gardena e il Passo Campolongo, la crisi e i due minuti e diciannove secondi persi ad Arabba l’indomani, la Rosa che se ne era andata e sembrava dar ragione a tutti: il Giro non lo potrai mai vincere.

Moser montava le ruote lenticolari, quelle che si era ripromesso di non mettere più dopo il cronoprologo di Lucca. Moser era disteso sulla bicicletta, le sue gambe un vortice, le sue spalle ferme, è l’immagine di come si dovrebbe pedalare, un tutt’uno con la bici. Moser è potenza e costanza, non pedala, vola. Fignon no, il suo è un incedere scostante, una fuga da se stesso. Uno è Raffaello, l’altro Picasso. Moser è esponenziale: ai dieci chilometri ha venticinque secondi di vantaggio, a metà percorso cinquantasei, ai trentadue un minuto e mezzo, all’arrivo due minuti e ventiquattro. L’Arena era un tripudio, Moser tirava il fiato aspettando il risultato definitivo e quando il ritardo di Fignon superò gli ottantun secondi fu il boato. 50,977 di media che voleva dire vittoria di tappa, che voleva dire Giro d’Italia, il prima della carriera.

Vincitore: Francesco Moser in 98 ore 32 minuti e 20 secondi;

secondo classificato: Laurent Fignon a 1 minuti e 3 secondi; terzo classificato: Moreno Argentin a 4 minuti e 26 secondi;

chilometri percorsi: 3.808.