Hugo Koblet

L'invasione svizzera. Il bel ciclismo secondo Koblet: meno 68 al Giro100

Giovanni Battistuzzi

Il Giro d'Italia del 1950 è stato il primo vinto da uno straniero. L'elvetico era un ciclista atipico: piaceva alle donne e prima di ogni traguardo trovava il tempo di pettinarsi

Con quella faccia lì, con quei capelli lì, con quello sguardo lì più che un ciclista sembrava un divo cinematografico. Era bello, certo, elegante e raffinato smessi i panni di corridore, ma elegante e raffinato lo era pure in sella, con quella pedalata composta e potente, che faceva venir voglia di guardarlo. Lo guardavano volentieri gli amanti del ciclismo e ancor più volentieri le donne, perché era il falco biondo, il James Dean del ciclismo. Hugo Koblet era svizzero, per nascita e per puntualità, per il resto un po’ meno, certamente non per tempra, più svogliato che ligio al dovere, più viveur che asceta.

 

Koblet era svizzero di Zurigo, quartiere Hard, al tempo periferia nord, al tempo quartiere popolare. Panettiere per stirpe, i Koblet lo erano da generazioni, lo sarebbe diventato pure lui. Un’adolescenza di alzate presto, sistemazione delle pagnotte e via a pedalare. Narrano che fosse talmente preciso e puntuale che un giorno che bucò i clienti si preoccuparono a tal punto che, quando arrivò venti minuti in ritardo, si commossero: erano preoccupati che gli fosse successo qualcosa. Narrano che quando bucò, percorse talmente forte la strada che lo separava dai clienti che superò a velocità doppia due professionista della zona e che questi provarono a riprenderlo senza riuscirci. Narrano che lo ingaggiarono subito.

 

Poi arrivò il 1947. Giro di Svizzera, prima semitappa, Zurigo-Siebnen, 88 chilometri, due salite tra partenza e arrivo. Sull’ultima Hugo attacca, Coppi e Bartali gli stanno dietro, Hugo sbuffa, riattacca ancora, Coppi e Bartali si staccano. Vince da solo. Coppi terzo, Bartali, quinto, stupiti. Coppi chiede chi sia quel biondo, gli parla, lo vuole con sé, lui ringrazia, ma rifiuta. Narrano che dietro a quel no ci fosse la modella che lo premiò. Se ne era innamorato e voleva rimanere a Zurigo con lei. Narrano che il loro amore durò due anni. Narrano.

Poi arrivò il 1950. Trentatreesima edizione del Giro d’Italia. Fausto Coppi favorito dopo la doppietta Giro-Tour nel 1949. Gino Bartali e Jean Robic, gli sfidanti, Fiorenzo Magni il terzo uomo. Sarà gara a quattro, dicono. Coppi si ricorda di quella chioma bionda e al via lo saluta. Hugo è onorato, orgoglioso e alla prima occasione fa vedere di non temere i rivali. Alla sesta tappa vince a Locarno dopo un attacco in discesa. Fortuna, dicono. Ottava tappa, Brescia-Vicenza, 214 chilometri, in mezzo molti strappi e una salita vera, il Pian delle Fugazze. Koblet legge il nome, si ispira, scatta e va in fuga. Con lui Fornara. Coppi e Bartali lasciano fare, quando si mettono a rincorrere è troppo tardi. Hugo vince la sua seconda tappa e si veste di rosa. Fuoco di paglia, dicono. Sulle Dolomiti si aspettano la sua resa. La resa però non arriva, anzi. Koblet attacca ancora, mette tutti in fila. Coppi non c’è più, a Primolano aveva salutato il Giro con il bacino fratturato. Magni arranca, Robic pure, con lui rimangono solo Bartali e Kübler. I tre superano Rolle, Pordoi e Gardena, vince Ginettaccio, Hugo è secondo. Non male, ma non regge, dicono. E invece sugli Appennini regge, non perde un metro. A Roma, sede d’arrivo di quel Giro, ci arriva in maglia rosa. Primo svizzero a farcela, primo non italiano di sempre. Primo a trovare sempre il tempo di pettinarsi i capelli prima dell'arrivo.

 

Vincitore: Hugo Koblet in 117 ore, 28 minuti e 3 secondi;

secondo classificato: Gino Bartali a 5 minuti, 12 secondi; terzo classificato; Alfredo Martini a 8 minuti e 41 secondi;

chilometri percorsi: 3.981.