Il segreto per andare forte in bicicletta nelle fughe di Giuseppe Pancera: meno 85 al Giro100

Giovanni Battistuzzi

Nell'edizione del 1928, la terza vinta da Alfredo Binda, il corridore veronese riuscì arrivare secondo, un tipo taciturno che fuggiva dal gruppo per coraggio e riservatezza

Il procedimento è semplice. “Prendete una bottiglia di vino, un pane casareccio da fare a pezzi e mettete tutto, pane e vino, in una scodella. Mescolate bene, ma bene, e quando il pane ha assorbito tutto il vino, allora potete mangiare. Il risultato è un miracolo. Ti rimette al mondo”. Quando parlava Giuseppe Pancera era simpatico, sapeva raccontare, aveva il tempo comico per far ridere. Il problema è che non lo faceva quasi mai, lo chiamavano “Silenzio”, e proprio per questo, si dice, stesse simpatico a Gino Bartali.

 

Pancera era silenzioso e molte volte anche schivo, perché un veneto “al zoga a carte a l’ostaria, al beve vin a l’ostaria, al parla un fià a l’ostaria e sta zito par risparmiar”, almeno così dice un detto popolare del trevigiano. Pancera era di San Giorgio in Salici, allora cinquemila anime alle porte di Verona, e da San Giorgio in Salici era partito per fare il corridore, “el mejo modo de lavorar”. E mentre pedalava gli piaceva la solitudine, per questo si liberava subito del gruppo e procedeva da solo, davanti a tutti, avanguardista solitario per professione. Quando nel 1927 vinse la Roma-Napoli-Roma, una delle poche corse che Mussolini non disprezzava perché finiva sotto il suo balcone a Piazza Venezia, coprì 433 dei 540 chilometri senza nessuno attorno: il resto dei corridori a inseguirlo e a maledirlo. Tagliò il traguardo un quarto d’ora prima del secondo.

Ingaggiato al Giro d’Italia nel 1928 dalla Touring-Pirelli, che il marchio milanese aveva dato in gestione agli spagnoli, aveva un solo compito: mostrare l’efficacia del nuovo modello di bicicletta. E per farlo, decise di intraprendere la solita via, l’avanguardia solitaria del gruppo. Pronti, via e primo allungo, verso Trento, 190 chilometri muto e pedalare sino a quando dopo Salò, salendo verso Bondo la ruota posteriore si afflosciò e si gonfiò la stanchezza: i cinque minuti che aveva sul gruppo di Binda evaporarono e tre di ritardo gli furono conteggiati all’arrivo dominato da “un forsennato Domenico Piemontesi".

 

Quattro giorni dopo nel corso della terza tappa ripropose lo stesso copione. Tra gli appennini che si ergono nei 148 chilometri che separano Predappio da Arezzo si sciroppa il Cento Forche, il Passo Carnaio e l’erta di Mandrioli. Da solo. Ma ancora una volta Binda e Piemontesi lo raggiungono quando la strada già odora di traguardo. E lo precedono. Immusonito finirà decimo.

 

E’ testardo Pancera. Un “teston bon par bater pai”, lo descriverà anni dopo il fidato gregario di Ottavio Bottecchia, Alfonso Piccin. Talmente testardo che due giorni dopo, durante la quarta tappa Arezzo-Sulmona, 328 chilometri, ci prova ancora una volta. Ancora avanguardia, ancora il gruppo a inseguire, ancora Alfredo Binda a raggiungerlo, a passarlo, a batterlo. Ma questa volta solo lui a fare questo. Perché gli altri li avevano seminati lungo le ascese e le discese della giornata. La classifica generale diceva secondo posto.

 

E’ testardo Pancera, ma anche saggio. Capì che Binda era inarrivabile, ma tutti gli altri erano alla sua portata. E da attaccante si trasformò in difensore. L’imperativo non era staccare, ma non staccarsi, che tanto lo sponsor era già contento dei chilometri davanti. E non mollò mai.

 

Quel Giro lo finì secondo. Dietro Binda, una vittoria, il massimo consentito. L’anno successivo fece lo stesso al Tour de France.

 

Vincitore: Alfredo Binda in 114 ore, 15 minuti e 19 secondi;

secondo classificato: Giuseppe Pancera a 18 minuti e 13 secondi; terzo classificato: Bartolomeo Aymo a 27 minuti e 25 secondi;

Chilometri percorsi: 3.044