Sergio Agüero, stella del Manchester City, tra Xi Jinping e l'allora premier David Cameron (LaPresse)

Il calcio di Xi Jinping

Giovanni Battistuzzi

L’obbligo di giocare a pallone nelle scuole, il sogno del Mondiale in casa. I progetti del presidente

Quando il primo maggio del 1994 Totò Schillaci posiziona il pallone sul dischetto, calcia di piatto alla sinistra del portiere segnando il 2-0 per lo Jubilo Iwata contro i Verdy Kawasaki, esultando a braccia alzate davanti a 17 mila spettatori, Xi Jinping aveva 41 anni, era a capo della Scuola del partito della città di Fuzhou, giocava a calcio nel fine settimana ed era considerato dai più come un valido uomo politico, uno insomma che avrebbe fatto carriera nel partito. Cosa c’entra Totò Schillaci con Xi Jinping l’ha spiegato a giugno l’ex allenatore della nazionale cinese, Gao Hongbo, in un’intervista alla China Central Television: “Un tempo il calcio in Asia era solo Giappone. Lì andavano i grandi campioni come Schillaci e Zico. Schillaci rese famoso il calcio giapponese in Europa. Il presidente (Xi) e la Federazione hanno fatto sì che questa cosa accadesse anche da noi. E’ un cambiamento epocale. Ora tanti ottimi atleti vengono qui e danno lustro al nostro campionato. Aiutando i nostri ragazzi a diventare campioni”. Il futuro della nazionale cinese è però a oggi ancora incerto, i risultati non sono arrivati e il cambiamento epocale descritto da Hongbo non si è visto. A farne le spese è stato proprio il tecnico, dimessosi su pressioni della federazione a ottobre e sostituito da Marcello Lippi.

 

Se la squadra nazionale arranca, il campionato cinese si sta velocemente espandendo, sta guadagnando attrattività internazionale e da almeno sedici mesi è riuscito a diventare meta d’approdo non più solo di giocatori di fama internazionale a fine carriera e alla ricerca di un ultimo ricco ingaggio, ma anche di calciatori nel mezzo della maturità fisica e calcistica e atleti dal grande potenziale. Questo mutamento di scenario parte da un’evidenza: l’ingresso nella dirigenza delle squadre della prima e della seconda divisione cinese di grandi gruppi industriali locali, che hanno investito – e parecchio – nel potenziamento delle rose di giocatori (406 milioni spesi nel calciomercato nella scorsa stagione, 251 al momento in questa). Il fattore economico, pur essendo determinante nell’attrarre grandi giocatori, però non basta a spiegare il successo che sta riscuotendo la Chinese Super League. Un procedimento del tutto simile a quanto accaduto in Cina infatti è capitato in Giappone negli anni Novanta del Novecento. Allora la J-League, il massimo campionato nipponico, era composta da club finanziati da grandi gruppi industriali come Toshiba, Matsushita, Sony, Canon, Nissan, Yamaha e Mitsubishi, che iniziarono a investire nel pallone. Offerte ai club sopra le medie europee dell’epoca, contratti miliardari ai giocatori in linea con quelli che le squadre più ricche offrivano ai campioni di allora.

 

In Giappone, però, ci finirono qualche brasiliano trascinato lì dai problemi economici dei club carioca e qualche grande calciatore deciso a spostare di qualche anno e con qualche yen in più l’età pensionabile. In oltre vent’anni sono cambiate molte cose: la sentenza Bosman innanzitutto, che ha stabilito che tutti i calciatori potevano trasferirsi gratuitamente alla fine del loro contratto, il maggior peso dei procuratori, la crescita degli introiti dei club. Ma il fallimento di quello che doveva essere l’eldorado nipponico non è stato causato dall’aver precorso i tempi, così come il momentaneo successo del campionato cinese non può essere spiegato unicamente dalle grandi possibilità economiche dei club. Per anni, ad esempio negli Emirati arabi, c’erano campionati con squadre dalle possibilità economiche paragonabili a quelle cinesi, ma a svernare al caldo della penisola arabica ci andavano solo calciatori a fine carriera. Quello che ora c’è e allora non c’era è un progetto di ampia portata e soprattutto solido. Perché la Chinese Super League non è un qualcosa di improvvisato, è un soggetto in divenire, ma con solide basi, creata sul modello dei campionati europei, anzi sul modello di quello che in Europa non c’è mai stato, ma poteva essere: la Superlega europea. Era l’inizio degli anni Duemila quando l’Europa iniziò a discutere del progetto: un campionato sovranazionale dove a scontrarsi dovevano essere soltanto i club più forti e importanti del continente.

 

Negli stessi anni, Xi Jinping fu messo a capo del comitato per la preparazione dell’Olimpiade di Pechino 2008 e lì incontrò Liu Peng, a capo da nemmeno un anno degli Stati generali dell’Amministrazione dello sport e Cai Zhenhua, ex allenatore della nazionale di tennistavolo, che in Cina è una cosa seria, ma amante come gli altri due del calcio. E l’idea europea sbarca nel paese del Dragone. La riforma della Chinese Super League pensata dall’ex presidente della Federcalcio, Yuan Weiming, viene su pressione di Peng, rivista. I due gironi previsti in origine vengono archiviati e ne resta uno solo, restringendosi anche le regole che danno il via libera all’iscrizione alle prime categorie: servono elevate garanzie economiche, copertura totale preventiva dei costi di gestione, un piano per il miglioramento delle infrastrutture. Ciò riduce le squadre, elimina chi non può permettersi investimenti elevati, aumentando il livello medio di competitività: i giocatori migliori si concentrano in una ventina di squadre, quelle che possono contare su un bacino di pubblico abbastanza vasto da poter dare grande visibilità ai marchi che sponsorizzano maglia e stadio.

 

Al resto ci ha pensato la politica. Prima dell’ascesa al potere di Xi Jinping, nel 2013, il massimo campionato cinese si era impreziosito di vecchi campioni e di stadi importanti. Il calcio iniziava a interessare un numero sempre maggiore di cinesi: gli ascolti delle partite dei campionati europei erano in netto aumento. Il successo televisivo di Premier League, Liga spagnola e serie A e quello delle amichevoli che i club europei disputavano in Cina (che esaurivano nel 91 per cento dei casi i biglietti disponibili) non si era però ancora esteso alla Chinese Super League che richiamava nelle tribune in media 18 mila spettatori. Allora le rose della massima serie cinese avevano un valore complessivo di 188 milioni di euro (secondo i dati di Transfermarkt). Ora il valore è salito a 384 milioni di euro (più 104 per cento), gli stadi continuano a incrementare presenze (24 mila in media durante l’ultima stagione) e il trend è in forte crescita. Secondo uno studio della Fifa entro il 2022 le presenze raggiungeranno i 13 milioni di unità (sono stati 5,7 nel corso dell’ultima stagione) e il bacino di appassionati che seguiranno la lega in televisione e sui social network supererà i 450 milioni di persone. Gran merito di questa espansione del calcio è stato del governo di Xi Jinping.

 

L’obbligatorietà del calcio nelle scuole, la creazione di grandi accademie calcistiche statali, l’abbattimento delle tasse che i club devono versare all’erario, la gestione privilegiata da parte delle società calcistiche di stadi e infrastrutture limitrofe a queste hanno infatti permesso di far diventare il calcio un affare per i grandi gruppi del paese. Interessi immediati, legati all’esposizione internazionale del marchio, ma soprattutto futuri. Le parole del presidente Xi non sono passate inascoltate: gli sforzi di chi oggi investe per una grande Cina calcistica saranno ripagati un domani, quando a Pechino e dintorni verranno organizzate le fasi finali della Coppa del Mondo. Il sogno di un Mondiale casalingo e di una formazione competitiva ha spinto infatti il Partito a puntare forte su questo sport, l’unico in grado di fare da vetrina sia alle eccellenze produttive cinesi, sia alla forza e alla salute e coesione della Repubblica popolare.

 

E’ proprio all’interno di questo scenario che infatti vanno collocati gli investimenti nel calcio europeo degli stessi grandi gruppi che hanno rilevato formazioni della prima e della seconda serie cinese. Squadre spagnole e inglesi, olandesi e francesi, sino alla Milano calcistica hanno preso la via dell’oriente: Inter acquistata dal Suning Group e Milan al centro di una trattativa che ancora non si è sbloccata del tutto e fa parlare di sé più per i ritardi e i passaggi per le British Virgin Islands della seconda caparra, che per il buon esito dell’operazione. Nei piani di Cai Zhenhua, l’attuale presidente della Federcalcio locale, infatti, l’espansione in Europa e in Sud America della Cina “andrà a colmare il gap esistente tra la giovinezza del know how del calcio asiatico e la tradizione di quello europeo e sud americano”. Un passaggio obbligatorio per realizzare nella pratica quanto annunciato dallo stesso Cai: “La Chinese Super League non è altro che la realizzazione migliore – ha detto a ottobre in un’intervista al quotidiano China Daily – di quel progetto mai nato in Europa di un campionato continentale che unisse il meglio del calcio, per esaltare la bellezza. Entro pochi anni il meglio lo avremo qui”.

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