Il tifoso giallorosso sugli spalti dell’Olimpico piange al secondo gol di Totti

Totti e il finale bottegaro

Stefano Pistolini
Epilogo di Roma-Torino, partita risolta dalla prodigiosa doppietta di Francesco Totti. Partiamo dall’immagine tv del tifoso giallorosso sugli spalti dell’Olimpico che, dopo aver assistito al capolavoro, viene sorpreso col volto trasfigurato dalle lacrime.

Epilogo di Roma-Torino, partita risolta dalla prodigiosa doppietta di Francesco Totti. Partiamo dall’immagine tv del tifoso giallorosso sugli spalti dell’Olimpico che, dopo aver assistito al capolavoro, viene sorpreso col volto trasfigurato dalle lacrime, mentre col cellulare cerca d’immortalare l’attimo fuggente. Beh, quelle non sono lacrime di commozione, lo si vede: sono lacrime di rabbia. Il tifoso è furente, perché con la sua ennesima magia sul campo, pochi secondi dopo essere stato gettato nella mischia per salvare il salvabile, Totti ha ribadito l’ingiustizia di cui tutta l’Italia discute, ovvero la contrapposizione tra lo splendore del suo talento, pur appannato dagli anni, e l’apparente crudeltà di Luciano Spalletti, l’uomo che s’appella alle risultanze delle sofisticate analisi di gioco effettuate coi droni, per dimostrare che il numero 10 non ha più i polmoni e le gambe per giocare da protagonista l’ultimo brandello di carriera. Quelle lacrime sono la sintesi del doloroso caos nel mezzo del quale si consuma l’uscita di scena del massimo talento espresso dallo sport romano, per ciò che ha fatto, ma soprattutto per l’impatto emotivo, il transfert passionale e l’amore che lo circondano e che oggi sono straziati dalla procedura, apparentemente orrenda, del distacco, per come è voluta dalla società, dalla sua proprietà americana che fa capo a mister Pallotta e, di nuovo, da quell’allenatore, tenace nell’interpretazione dell’esecutore testamentario.

 



 

Spalletti si è trovato prigioniero di una tenaglia di fattori: da un lato la comanda degli americani, secondo cui ormai Totti è un ingombrante costo aggiunto che va scaricato dal bilancio, tutt’al più ritagliandogli un ruolo di facciata, per quanto lui ripeta di non volerne sapere di sostituire il campo col blazerino societario. D’altro lato, la questione della reputazione e dell’autostima dello stesso Spalletti, tecnico rispettato e riverito, sebbene a Roma, in passato, le cose andarono per lui a corrente alternata. Ed ecco che – appena lui ufficializza che nella sua idea di squadra il posto per Totti non c’è più – quello si mette a fare il fenomeno, produce capolavori che somigliano a dispetti, s’accanisce a fargli fare la parte del fesso, mettendoci in sovrappiù lo sputtanamento prodotto con dichiarazioni d’istinto, miele per le orecchie del tifoso in cerca di oggetti d’amore. La parte del pragmatista estremo, che si fida delle statistiche (quelle secondo cui Totti corre svogliato), del cinico che antepone il budget plan a qualsiasi debito di riconoscenza, viene sbugiardata da ciò che Francesco fa non appena mette piede sul campo. Il risultato è una straordinaria follia: l’uscita di scena del campione supremo, che la liturgia solenne sapientemente amministrata nel suo progressivo vorticare sentimentale, si trasforma in una sceneggiata scalcagnata, perversa e divertente, disseminata di colpi di scena, battute feroci e pubblico in preda a un pericoloso delirio di eccitazione. Se confrontiamo l’epilogo di Totti – se tale sarà, malgrado la pretesa popolare e trascinando nel gorgo quel che resta di Spalletti – col recente commiato di Kobe Bryant a Los Angeles, l’effetto è straniante. I punti in comune erano tanti: due atleti-bandiera, legati dal primo giorno ai colori di una sola squadra, di cui sono diventati faccia, cuore, anima e definizione estetica.

 



 

Due caratteri complessi, tendenti all’individualismo, consapevoli della propria unicità, due magnifici solisti. Per Kobe, arrivato al capolinea della condizione fisica e ormai presenza inconciliabile con le necessità di rifondazione di una squadra insensata dal punto di vista agonistico, si è coreografata in modo magistrale la rappresentazione dell’addio, con una perfetta combinazione mediatica di forme, contenuti e significati del suo passaggio. Per Totti, la Roma pallonara ha rispolverato un’improvvisazione bottegara che fa dubitare dei passaporti effettivamente americani, e soprattutto della competenza, della proprietà. Si è imboccata male la porta degli imbarazzi, inscenando una moina sostenuta a fatica da Spalletti e sbugiardata dal titolare della questione, allorché, offeso, s’è sentito preso in giro. Il finale, qualsiasi esso sia, sarà indecente, da pochade, in un susseguirsi di rimedi, di metterci una pezza, delle “aggiustate” che rendono il calcio specchio deformante della società nazionale. Un mondo di furbi, improvvisati e infiltrati, nel quale Totti si staglia all’orizzonte come un eroe omerico. Al quale i cupi conteggi d’impresentabili affaristi vorrebbero sottrarre il piacere sublime di giocare meravigliosamente al calcio. Tanto più dal momento che questo bailamme gliene ha fatto proprio tornare la voglia.

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