Le solite proteste. Studenti in piazza la scorsa settimana contro l’alternanza scuola-lavoro (foto LaPresse)

Se gli studenti sono contro l'alternanza scuola-lavoro, la colpa è degli adulti

Mario Leone

E’ la generazione del “non ce la farete”, “non troverete mai un lavoro”, “dall’Italia bisogna andare via”, “non cambia mai nulla”

Roma. Ci mancava anche la lettera di Enrico Galletti, diciottenne che scrive al Corriere reclamando il diritto “di sbattere la porta. La facoltà di rifiutarsi di lavare i pavimenti come esperienza lavorativa se il tuo sogno è quello di diventare medico”.

 

Prima di lui lunghi cortei in orario scolastico. Per gridare lo sdegno contro l’alternanza scuola-lavoro, dove gli studenti, a dire dei capi popolo, sono “merce nelle mani delle aziende”. Tra ottobre e novembre manifestazioni, occupazioni e autogestioni sono una semplice pausa dalle fatiche di inizio anno. Eppure questa alternanza è una delle cose più positive della Legge 107/2015 (se ne parla dal comma 33 al 43). Per gli Istituti tecnici non è una novità (vedi DL 15 aprile 2005, n. 77) per i licei sì. Una possibilità, come dice la Legge, per “incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti” che conoscono come unico lavoro dopo la scuola il Fantacalcio.

 

In pochi hanno tentato di realizzarla organicamente; molti, tra presidi, genitori e alcuni docenti, si sono ingegnati per offrire la “via breve” ai poveri liceali, piagnoni, costretti ad andare a lavorare qualche ora durante le vacanze o nel pomeriggio dopo le lezioni a scuola. Sarebbe prolisso dettagliare come si svolge. Basti solo sapere, oltre al numero delle ore nell’arco di un triennio, che l’istituto scolastico deve stipulare un accordo con un ente di qualsiasi tipo (anche centri per il volontariato), realizzare un programma che dipani come si svolgerà questa alternanza, e in seguito il ragazzo dovrà documentare l’esperienza lavorativa. Il tutto entrerà a regime nella Maturità 2019, ma già dallo scorso anno tutti si cimentano con questa novità. Un milione di studenti coinvolti e più di cinquemila soggetti imprenditoriali iscritti al registro per l’alternanza con una distribuzione squilibrata a favore del nord Italia. Come spesso accade di fronte a qualcosa di obbligatorio ci si lamenta e si cerca di trovare la scappatoia che consenta agli alunni e alle scuole di cavarsela senza troppi grattacapi e ad alcuni di aumentare i guadagni. E’ il caso del proliferare in rete di crociere, viaggi all’estero, parchi naturali, che offrono pacchetti ad ore (40 ore di alternanza, 60 ore, etc etc), triste mercanzia che non fa bene a nessuno. Perché una tale situazione? E’ una questione culturale. Da un lato abbiamo ragazzi iperstimolati dalla realtà ma fuori dalla realtà, imbecilli (dal latino, imbecille è colui che è incapace di stare in piedi) e marchiati dalla paura di non farcela. Questa paura nasce da adulti che sempre meno credono alle possibilità costruttive del giovane. E’ la generazione del “non ce la farete”, “non troverete mai un lavoro”, “dall’Italia bisogna andare via”, “non cambia mai nulla”. Per la prima volta, con l’alternanza, un adolescente può contribuire a costruire qualcosa, rischiare, mettere finalmente le mani in pasta. Molti dirigenti e docenti invece pensano che faccia perdere tempo al programma (che non esiste più), i ragazzi non siano pronti per il mondo del lavoro (vedi anche non ce la farete) e ci siano problemi di sicurezza (come se l’alternanza si facesse in guerra). E’ tutto troppo fuori gli schemi convenzionali e organizzativi. L’alternanza scuola-lavoro, dove fatta bene, consente di misurarsi con se stessi, vagliare il saputo e scoprire qualcosa di nuovo. Non solo. Questa potrebbe servire ai docenti spesso ignari rispetto alle dinamicità del mondo del lavoro; potrebbe essere l’occasione per attuare la tanto agognata flessibilità e autonomia organizzativa della scuola. Oltre agli studenti, l’alternanza potrebbe servire anche agli enti che li ospitano. Questi sempre più spesso costretti a formare ex novo i ragazzi che provengono dalle università o dalle scuole. Conoscere i fabbisogni formativi favorirebbe un dialogo che migliori in generale la formazione che la scuola oggi offre e riduca quel quadro desolante di un mondo scuola perennemente affossato nella grigia valle del lamento, i cui studenti, futuri sindacalisti o grillini, prima dei pavimenti, dovrebbero pulire i cessi.

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