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Il rapporto che abbiamo con Facebook è più complesso di una formula matematica

Daniele Pirozzi

Abbiamo affidato parte della nostra vita a qualcosa che è in grado di aumentare l’efficienza della connessione e ampliare il nostro capitale sociale. Ma il risultato finale non sempre va a nostro favore

Anche se ormai lo diamo per scontato, c’è stato un tempo in cui quando suonava la sveglia eravamo liberi dall’ossessione di controllare notifiche, messaggi e richieste di amicizia. Oggi invece sono due miliardi le persone che ogni mese accedono al proprio profilo Facebook. Una ricerca dell’Università di Göteborg, in Svezia, rivela che gli utenti trascorrono in media 75 minuti online al giorno mentre per uno studio tedesco il desiderio di navigare sui social supera quello di dormire e riposarsi. Dati simili sono stati confermati anche in un’indagine oltre oceano: il 34 per cento delle utenti americane tra i 18 e i 34 anni, ogni mattina accede al proprio profilo prima di andare in bagno, mentre il 21 per cento si sveglia nel cuore della notte per leggere i messaggi. In termini matematici diremmo che noi stiamo a Facebook come centinaia di milioni di piccole calamite stanno a un immenso frigorifero.

 

Ma perché iniziamo a usarlo? Perché potenzialmente offre soluzioni ai bisogni e ai desideri più disparati. Per alcuni è solo uno svago, per altri un mezzo per ottenere informazioni, per altri ancora è diventato una realtà imprescindibile nel proprio lavoro: ad esempio promuovere un prodotto o pubblicizzare la propria azienda. Ma, più di tutto, Facebook risponde a un nostro bisogno fondamentale, quello dell’interazione sociale. Se è vero che cerchiamo l’interazione poiché siamo esseri umani è anche vero che diveniamo esseri umani nel momento in cui interagiamo con altre persone. E poiché nell’incontro con l’altro sviluppiamo, tra le altre cose, la nostra identità individuale, allora Facebook offre opportunità mai viste finora: un confronto costante e infiniti contesti relazionali nei quali sperimentarci.

  

In particolare, secondo Nadkarni e Hofmann, entrambi ricercatori dell’Università di Boston, l’utilizzo di questa piattaforma sarebbe guidato da due fattori sociali: il bisogno di appartenenza e quello di auto-presentazione. Il primo ci spinge a far parte di gruppi sociali e a cercare l’approvazione e il supporto degli altri, il secondo si rifà all’opportunità di veicolare una determinata immagine di noi stessi. Ecco dunque che attività come lo scrivere messaggi privati, commentare i post altrui, ricevere ‘mi piace’ e aggiornare il proprio profilo riuscirebbero a soddisfare entrambi i bisogni.

  

Ma c’è anche un’altra motivazione. Il fatto che a ogni nostro accesso possiamo scegliere se taggare un gruppo di amici in una foto, mandare un video a un familiare che non vediamo da anni o, all’occorrenza, contattare l’amico di un amico che sappiamo essere laureato in chimica e potrebbe aiutarci per un esame universitario, ci permette di ampliare il nostro capitale sociale.

  

Inevitabilmente, però, un utilizzo così diffuso solleva quesiti in merito alle sue conseguenze nelle nostre vite. Nonostante la letteratura scientifica si trovi divisa a metà tra ricerche che promuovono gli effetti positivi e altre che mettono in guardia da quelli negativi, a fare la differenza sarebbero due aspetti: la quantità di tempo passata online e il tipo di attività svolte. I ricercatori dell’Università del Michigan hanno inviato ai partecipanti del loro studio cinque messaggi di testo al giorno per due settimane contenenti il link a un questionario con domande sul loro stato d’animo del momento, su quanto si sentissero soli e preoccupati, sulla frequenza d’interazioni dirette avute (vis-a-vis, telefonate) e sul tempo passato sul sito. Le risposte riguardavano dunque l’arco di tempo tra il messaggio appena ricevuto e il precedente. E’ risultato che più le persone usavano il social network e più si sentivano infelici e tristi. Inoltre, tra l’inizio e la fine dello studio, gli effetti negativi dell’essere spesso online si manifestavano anche in un senso d’insoddisfazione generale per la propria vita.

 

 

Anche utilizzare la piattaforma in modo passivo, cioè non interagendo con gli altri ma limitandosi al consumo di contenuti, aumenterebbe l’insoddisfazione e il senso di solitudine. Più precisamente, limitarsi a leggere i post altrui senza commentare, guardare video o scorrere la news feed senza uno scopo preciso, darebbe la sensazione di aver sprecato il proprio tempo in qualcosa di scarsa importanza.

 

Inoltre, se Facebook può aumentare il senso di connessione con gli altri, può anche concretizzare la paura di essere ignorati ed esclusi. Un fenomeno che prende il nome di cyber ostracismo. Aspettare una risposta dopo che la funzione ‘visualizzato’ ci avvisa che un messaggio è stato letto o rimanere in attesa di un feedback dopo aver aggiornato il nostro profilo susciterebbe – con intensità diverse per ognuno – la sensazione di non essere considerati, a danno della nostra autostima.

 

Viceversa sembra confermato che scambiarsi messaggi, dare e ricevere dei feedback (‘mi piace’) e taggare i propri contatti in foto e video, giochi un ruolo importante nel farci sentire meno soli e nell’aiutarci a consolidare i legami più stretti.

 

  

Dunque un utilizzo moderato nei tempi e in linea con quella che dovrebbe essere l’essenza di un social network –l’interattività – può anche migliorare il nostro benessere. Tuttavia Facebook si rivela essere un social poco social: infatti dedichiamo solo il 20 per cento del nostro tempo a comunicare con gli altri e a gestire l’immagine che vogliamo dare di noi, preferendo di gran lunga il consumo di contenuti, cioè proprio il tipo di approccio che sembra renderci infelici.

 

A questo punto, se è comprensibile il perché iniziamo a usare Facebook, diventa più complicato capire il perché continuiamo ad accedervi, soprattutto con una modalità e una frequenza controproducente. I motivi sembrano essere più di uno.

 

Mark Zuckerberg al Mobile World Congress 2016 (foto LaPresse)


  

Tra questi, l’abitudine potrebbe avere un ruolo fondamentale. Basti pensare che secondo uno studio svedese il 42 per cento degli utenti effettua il login senza rendersene conto o quando aveva in mente di fare altro. E’ possibile che ciò che all’inizio risponde a un’intenzione cosciente (curiosità, voglia di comunicare, gratificazione) a lungo andare diventi una routine che, come tutti gli automatismi, richiede uno sforzo cognitivo ridotto. La caratteristica principale dei messaggi presenti su Facebook – la ricchezza – potrebbe favorire questo processo: un messaggio è tanto più ricco quanto più è facile da comprendere. Ad esempio un video o un’immagine, o una loro combinazione (il tipo di contenuti più diffusi), richiedono molto meno sforzo cognitivo rispetto a un post scritto: una possibile spiegazione anche del perché passiamo gran parte del nostro tempo a consumare contenuti anziché interagire.

  

Inoltre, a renderci difficile vivere senza Facebook sarebbe la gratificazione che proviamo quando parliamo di noi stessi. Una ricerca condotta presso l’università di Harvard dagli psicologi Diana I. Tamir e Jason P. Mitchell, prova infatti che l’esprimere i propri sentimenti e vissuti attiva regioni del cervello – in particolare del nucleo accumbens e dell’area ventrale tegmentale – coinvolte nella dipendenza e nel piacere. Considerato che almeno il 30-40 per cento delle nostre conversazioni lo impieghiamo per parlare di noi stessi (la percentuale arriva anche all’80 per cento quando comunichiamo nei vari social network), Facebook può trasformarsi in una vera e propria droga.

 

A consolidare questo circolo vizioso ci sarebbe, infine, un errore di valutazione: siamo convinti che andare su Facebook ci farà sentire meglio, anche se poi pensiamo di aver sprecato il nostro tempo.

 

Insomma, sembra che una volta che accediamo in questo spazio infinito di relazioni, si vengano a mescolare aspetti individuali, sociali e neurobiologici che rendono poi difficile tirarsene fuori. In questo, e non potrebbe essere altrimenti, Zuckerberg e colleghi non ci sono d’aiuto continuando, anno dopo anno, a fornire nuove forme di gratificazioni in grado di agganciare diverse tipologie di utenti: con funzioni come la condivisione di foto, le dirette live, i giochi e la possibilità di effettuare acquisti.

 

Come la si gira si gira, la formula “noi stiamo a Facebook come centinaia di milioni di piccole calamite stanno a un immenso frigorifero dà sempre lo stesso risultato: abbiamo affidato parte della nostra vita a qualcosa che è in grado di aumentare l’efficienza della connessione, ma che non sempre rappresenta un mezzo idoneo per creare legami emotivi, lasciandoci soli nell’illusione di vivere interconnessi. O, come direbbe la psicologa e docente al Mit di Boston Sherry Turkle, “insieme ma soli”.

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