Le campagne antiscientifiche contro i vaccini hanno un argine: la ricerca

Massimo Piattelli Palmarini

Anche in Italia si è diffusa una dissennata resistenza alle vaccinazioni. Per fortuna da alcuni anni si sta consolidando la scoperta dell'“immunità addestrata”. Le sue future applicazioni terapeutiche

In fatto di vaccini siamo purtroppo, sotto il profilo sociale, in una fase problematica. Si è diffusa, anche in Italia, una dissennata resistenza alle vaccinazioni – di cui anche il Foglio ha più volte denunciato l’inconsistenza scientifica e la pericolosità – creando non solo un alto rischio individuale per i non-vaccinati, ma anche un rischio collettivo, in quanto la potenziale diffusione di individui suscettibili alle infezioni causa un calo della cosiddetta immunità del gregge (herd immunity). Quando un agente patogeno non incontra organismi nei quali attecchire e moltiplicarsi, piano piano scompare. E’ stato il glorioso caso della fine del virus del vaiolo. La lenta e progressiva universalità della vaccinazione ha sgominato questa tremenda malattia. Nel 1980, l’Assemblea mondiale della sanità dichiarò che il vaiolo era stato eradicato dalla Terra. Alcuni campioni del virus, sotto strette misure di protezione, sono stati archiviati, a futura memoria. Per fortuna, nonostante le campagne antivaccini, nel mondo della ricerca in immunologia, il progresso continua e si rafforza.

Da alcuni anni a questa parte, ma soprattutto negli ultimi mesi, si sta consolidando la scoperta di un nuovo tipo di reazione immunitaria, battezzata immunità “addestrata” (trained immunity). Uno dei pionieri di questo settore è l’insigne immunologo italiano Alberto Mantovani, fondatore e direttore scientifico dell’Istituto clinico Humanitas, nei pressi di Milano. Per cogliere la novità di questa scoperta conviene fare un passo indietro, anzi due. Da gran tempo è noto il sistema immunitario chiamato “adattativo”, quello, tanto per intendersi, che agisce attraverso la produzione di anticorpi specifici da parte dei linfociti B, possentemente coadiuvati dai linfociti T. Basato sulla memoria a vita che queste componenti dell’organismo hanno di precedenti incontri con particolari batteri e virus, le cellule B e T, a questo deputate, si moltiplicano in misura notevole e, a ogni nuovo incontro con lo stesso invasore, tutto è già approntato per una rapida ed efficiente difesa. L’efficacia dei vaccini ne è dimostrazione chiara. L’immunità adattativa è presente in tutti i vertebrati (un po’ per scherzo, ma non del tutto per scherzo, gli immunologi dicono che nasce con lo squalo) e ha come intimo motore la straordinaria e unica capacità di questi linfociti di riorganizzare internamente il loro genoma. Tagliando e riannodando tra loro in ogni possibile sequenza i geni in tre intere bancate, queste cellule sono capaci di produrre, nell’uomo, alcuni miliardi di distinti tipi di recettori e di anticorpi, ciascuno capace di riconoscere e legare un particolare antigene.

 

Il secondo passo indietro ci porta alla scoperta della cosiddetta immunità innata, la prima difesa dell’organismo nel corso della reazione immunitaria e la prima ad apparire nella scala evolutiva, giù giù fino agli insetti. Chiamata anche immunità senza memoria o non-specifica, consiste nel riconoscimento di intere classi di agenti patogeni. Si noti: intere classi, non singole specie di fungi, batteri o virus, come invece avviene con l’immunità adattativa. Dopo alcuni decenni di ricerche, l’immunità innata fu coronata nel 2011 dal premio Nobel per la Medicina al francese Jules Hoffman, all’americano Bruce Beutler e al compianto canadese Ralph Steinman, morto pochi giorni prima di ricevere la notizia del suo Nobel.

 

La motivazione ufficiale del Nobel dice: “Per la scoperta dei recettori capaci di riconoscere microorganismi e attivare l’immunità innata, primo passo nella risposta immunitaria dell’organismo”. Un gigante del settore, l’americano Charles Janeway, non poté condividere il Nobel, perché deceduto nel 2003.

Eppure, per dirla con Eugenio Montale, su quel mare dové mettersi un vento, perché si scoprì che esiste una reazione immunitaria innata con una sua memoria, anche senza l’intervento dei linfociti T e B, cioè anche in assenza di anticorpi. Nel 2000, Janeway e Medzhitov avevano identificato, anche negli invertebrati, una nuova classe di recettori nelle cellule dell’immunità innata. Con il senno di poi, si vide, cioè, che faceva capolino quella che oggi viene chiamata immunità addestrata o memoria immunitaria innata. Appunto, la parola “memoria” si abbina adesso anche all’immunità innata. A quanto se ne sa attualmente, questa memoria dura settimane o mesi, non proprio anni, ma l’organismo reagisce prontamente ad agenti patogeni già incontrati in tale lasso di tempo. Il meccanismo che conferisce tale memoria non è, come per i linfociti T e B, un rimescolamento interno nella sequenza e la concatenazione di geni, bensì un processo detto epigenetico. In altre parole, la sequenza del Dna delle cellule deputate all’immunità innata non viene ritoccata. Quello che succede è che minuscole molecole (soprattutto quelle chiamate gruppi metilici) si attaccano al Dna in posizioni specifiche, o si attaccano ai “rocchetti” attorno ai quali il Dna si avvolge (i cosiddetti istoni), creando una regolazione nuova dei prodotti di quei geni. Tali modifiche, prodotte da un incontro con una classe di agenti patogeni, sono trasmesse alle cellule figlie e alle cellule nipoti, creando, appunto, il nuovo tipo di memoria immunitaria. Ben si attaglia a questo processo il termine “addestrato” (trained), perché non si addestra certo un organismo a fare ciò che è comunque geneticamente e spontaneamente predisposto a fare, ma lo si addestra a fare qualcosa che potenzialmente, solo potenzialmente, può fare. Gli spettacoli dei circhi equestri lo mostrano chiaramente. I grandi ghiottoni del sistema immunitario, cioè i macrofagi, capaci di inglobare, digerire e dissolvere un agente patogeno, insieme alle altre cellule caratteristiche dell’immunità innata (monociti e cellule assassine – natural killer cells) sono, appunto, capaci di apprendere a sviluppare e a trasmettere una memoria di incontri poco piacevoli per l’organismo. Una vasta rassegna sui processi dell’immunità addestrata, recentemente pubblicata su Science da un’équipe di studiosi italiani (Gioacchino Natoli dell’Ieo), olandesi, tedeschi, irlandesi e americani, promette anche, per un futuro prossimo, alcune applicazioni terapeutiche per le quali esistono incoraggianti premesse. Vengono menzionati nuovi vaccini, capaci di armonizzare tra loro i diversi tipi di reazione immunitaria. Si parla anche di sostanze stimolanti, capaci di sbloccare la paralisi immunitaria prodotta dall’osteosarcoma e di modulare o sopprimere processi auto-infiammatori. Strano a dirsi, ancora alla fine degli anni Ottanta, sembrava ad alcuni esperti che la ricerca sui processi immunitari avesse raggiunto un plafond, che non restasse molto altro da scoprire. Inaugurando, nel 1989, un simposio specialistico a Cold Spring Harbor, Charles Janeway, che non ne era convinto, pronunciò questa mirabile frase: “Credo che le idee, soprattutto le idee buone, possono talmente soddisfare il nostro desiderio di spiegare quanto stiamo studiando da bloccare la nostra capacità di esplorare e capire le novità”. I rendiconti non dicono se avesse proprio in mente l’alba di quella che ora si chiama immunità addestrata, ma io non lo escluderei.

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