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La ricerca italiana vola. Nonostante tutto

Simonetta Sciandivasci

Siamo il Paese che investe meno (1,33% del Pil contro la media europea del 2,03%). Eppure siamo al settimo posto nel mondo per pubblicazioni e citazioni scientifiche 

L'H-Index colloca la prolificità e l'impatto della ricerca italiana al settimo posto nel mondo, dopo il Giappone e prima dell'Olanda, paesi assai più munifici del nostro nell'elargire risorse al settore della ricerca scientifica. Nel triennio 2011-2014, il medesimo impatto (misurabile attraverso le pubblicazioni degli studi su riviste scientifiche internazionali e il numero di menzioni sulle stesse) ha battuto la media europea e, nel 2016, quella mondiale. Risultati che mostrano come, incredibilmente, tra la qualità dei risultati scientifici e quella delle condizioni per raggiungerli non esista, in Italia, un rapporto di diretta proporzionalità. Qualche dato sulle predette condizioni: negli ultimi sette anni, alla ricerca è stato sottratto poco meno del 10% di investimenti pubblici, con il risultato che, dal 2008 a oggi, il settore si è ritrovato con un miliardo di finanziamento e 10mila ricercatori in meno. Nel 2015, la percentuale di ricercatori ogni mille occupati era del 4,73% in Italia e del 7,40% in Europa e, lo stesso anno, l'investimento affidato a Ricerca e Sviluppo era pari all'1,33% del PIL (la media europea è del 2,03%). L'età media di ricercatori attivi, oggi, nelle università italiane è di cinquant'anni. Alla luce di questi dati, la virtuosità della nostra ricerca assume contorni miracolistici.

 

Nell'incontro tenutosi a Roma presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e organizzato dalla Consulta dei Presidenti degli Enti Pubblici di Ricerca e dalla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI), è però stata rilevata una timida controtendenza. Sembra, infatti, che i benefici derivanti dall'interruzione dei tagli alla ricerca (due anni or sono) e i piani straordinari per il reclutamento di ricercatori (quello dello scorso anno prevedeva uno stanziamento di 47 milioni e le porte aperte per 861 scienziati) stiano re-indirizzando i trend verso una curva crescente: il rettore dell'Università degli Studi di Napoli Federico II, Manfredi ha parlato di circa due/tremila ricercatori in più, sottolineando a più riprese, tuttavia, la prepotente attrattività di altri paesi che sono in grado di offrire, anche a parità salariale, condizioni lavorative migliori e facilitanti (un appello sentitissimo a una sburocratizzazione del lavoro accademico è arrivato anche dal rettore de La Sapienza, Eugenio Gaudio). Numeri piccoli ma assai significativi anche all'ASI (Agenzia Spaziale Italiana), dove negli ultimi mesi sono arrivati sedici nuovi ricercatori: tra loro, sette donne e tre ex "cervelli in fuga".

 

La produttività eccellente, quasi eroica dei ricercatori italiani, comunicata finora in termini forse messianici o tragicomici (siamo pur sempre il paese dove "Smetto quando voglio" non è un film surreale su una banda di ricercatori costretti a delinquere per arrivare a fine mese, ma quasi un documentario), tuttavia inefficaci ai fini di un convincimento collettivo sull'importanza che la ricerca ha e avrebbe come volano di sviluppo socio-economico, non sortisce alcun effetto nel drammatico calo di fiducia verso l'istruzione superiore. Negli ultimi due anni, le iscrizioni agli atenei italiani sono diminuite del 15% ed è sempre più diffusa, anche nelle fasce più alte della popolazione, l'idea che la laurea non garantisca alcun futuro professionale: i numeri confermano che proseguire gli studi dopo le scuole medie superiori permane l'investimento più sicuro delle famiglie per il futuro dei propri figli. Il dato "percepito", invece, vuole esattamente il contrario. Anche per questo, tanto la Consulta dei Presidenti quanto la CRUI sono ferme nel richiamare l'attenzione del governo ad una attuazione seria del decreto sulle lauree triennali professionalizzanti (firmato, alla fine del 2016, dall'ex ministro dell'Istruzione Stefania Giannini e il cui debutto è previsto entro il 2017).

 

Arginare la disaffezione dell'opinione pubblica verso la ricerca scientifica accademica e la sfiducia verso gli enti pubblici di ricerca (affamati di sinergia con il privato anche per questo, in fondo) passa soprattutto verso una corretta comunicazione dell'impiego del denaro statale ad essi versato.

 

La scorsa settimana, il Corriere della Sera dava notizia di un tesoro segreto di 4,5 miliardi nelle casse di enti di ricerca e università: "risorse ferme e non sfruttate dai centri di eccellenza". In realtà, come ha sottolineato Renato Falcone, ricercatore, le somme che allo sguardo di chi ha condotto l'inchiesta sono parse "non impegnate", erano quote di finanziamento ordinario, destinate a coprire spese di funzionamento di strutture e personale. A giugno dello scorso anno, la senatrice a vita e neuroscienziata Elena Cattaneo, aveva presentato in Senato un dossier di 50 pagine in cui tentava di dimostrare che l'Istituto Italiano di Tecnologia (Lit) di Genova faceva un uso scorretto dei fondi pubblici. 

 

Nel primo caso si è trattato di bufala non intenzionale, nel secondo chissà. "Si è confusa la cassa con la competenza", ha dichiarato il direttore generale dell'Università La Sapienza, durante l'incontro presso il CNR, sottolineando come il quadro della trasparenza del suo Ateneo sia ineccepibile. Stesso dicasi per tutti gli organi ed enti di ricerca italiani, i cui bilanci sono consultabili, uno per uno, in rete, oltre ad essere sottoposti a vaglio costante delle strutture eroganti. "Le spese per la ricerca non sono spese, ma investimenti", ha detto Massimo Inguscio, presidente del CNR. Sembra felice retorica e, invece, è la traduzione di numeri. Quelli che dimostrano, per esempio, il forte effetto moltiplicatore degli investimenti in ricerca, che attraggono risorse europee e aziende internazionali, aumentando la competitività di un paese che, altrimenti, ne resterebbe molto probabilmente escluso. 

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