Dalle scie chimiche ai vaccini. Perché divulgare la scienza è sempre più difficile

Simonetta Sciandivasci

L’uno vale uno applicato alla comunicazione genera mostri. Professionisti del settore ci suggeriscono soluzioni

Roma. Dottor House, quarta stagione (2007): “Le bugie sono impegnative come i bambini, ma ne vale la pena: il futuro è nelle loro mani”. La profezia si è avverata. Ai tempi del dottor Gregory House, il protagonista dell’omonima serie tv e precursore del divismo scientifico, non facevamo caso alla post verità. La divulgazione scientifica non era comunicazione e la scienza era, come dall’Ottocento in poi, predittiva e fallibile, discutibile ma non opinabile. Apolitica. Dell’uscita di scienziati e ricercatori dalla turris eburnea – per aggiudicarsi i finanziamenti – si vedevano solo gli effetti positivi. La scienza per tutti. I festival. La solennità affettuosa di “Super Quark”. E poi la prima astronauta italiana a Sanremo. I tweet dallo spazio. I best seller. Le serie tv. L’immaginario. “‘The Big Bang Theory’ ha aumentato le iscrizioni alle facoltà di Fisica negli Stati Uniti: un prodotto televisivo che ha molto poco di scientifico ma che, raccontando quattro simpatici scienziati nerd, li ha resi affascinanti”, dice al Foglio Marco Ferrazzoli, capo ufficio stampa del Consiglio nazionale delle ricerche e docente di Divulgazione all’Università Torvergata. “The Big Bang Theory” è una sit-com di successo, quest’anno alla decima stagione. Euglossa Bazinga, il motto di uno dei suoi protagonisti, è stato usato per battezzare una nuova specie di api scoperta in Brasile. La scienza parla pop, ma è pop?

 

“Bisogna chiarire che la scienza non è un contenuto, bensì un metodo: rigore, confronto, verificabilità dei risultati”, spiega Ferrazzoli. Prendiamo il libro più discusso del 2015, “Sette brevi lezioni di fisica” di Carlo Rovelli: più di trecentomila copie vendute. Un record. “Lo leggi e magari non capisci del tutto la fisica quantistica, però ti ci appassioni. La divulgazione non deve aprire una porta, né far entrare nel contenuto scientifico: lo deve mostrare. Farsi capire e attrarre”. La chiarezza e il fascino di Piero Angela hanno portato le scoperte scientifiche nelle case degli italiani, per decenni, dopocena, all’ora dei film, proprio come fossero pellicole, ma accessibili ed esatte. Incontestabili. La mediazione che mostrava le scoperte al grande pubblico, semplificandole, non le rendeva per questo opinabili. Eppure a un certo punto anche la scienza è stata travolta dall’uno vale uno, inglobata nel tentativo di rendere tutto una piattaforma dove fruire e disporre. Competenza e preparazione sono superflue, quando non colluse con i poteri forti.

 

E’ accaduto su Facebook perché sui social network esiste l’accesso diretto, ma non la mediazione. Quando, nel 2013, il Parlamento decise per la sperimentazione del metodo Stamina ideato da Davide Vannoni, dottore in scienze della Comunicazione, per curare le malattie neurodegenerative, il Corriere titolò: “Veronesi: sperimentazione su Stamina è un errore, politici trascinati dalla piazza”. Oggi, la piazza tenta di trascinare gli scienziati. Lo scorso anno, in un’intervista a Linkiesta, Edoardo Boncinelli, medico genetista, ricordava che gli italiani non si sono mai fidati degli scienziati e che non c’è peggior credulone di chi sospetta di tutto: dev’essere stato per questo che la piazza ignorò Veronesi e volle Stamina. “Qui ha diritto di parola solo chi ha studiato. La scienza non è democratica”, ha scritto il dottor Roberto Burioni, ordinario di Virologia all’Università Vita-Salute San Raffaele, sulla sua “pagina di informazione scientifica” di Facebook, in risposta ai commenti deliranti al post in cui chiariva che i recenti casi di meningite non sono stati dovuti al contagio di cittadini migranti. “Intendevo che i dati scientifici non sono sottoposti a validazione elettorale: se anche il 99 per cento del mondo votasse che due più due fa cinque, continuerebbe a fare quattro”, ha poi specificato, indotto dall’irrancidirsi della polemica.

 

Per alcuni Burioni è un eroe: ha ristabilito un confine e sottratto la comunicazione sui temi scientifici al dominio delle opinioni maturate su internet. “Prima si diceva ‘l’ho visto in tv’”, ricorda Ferrazzoli, mettendo un argine all’idea che il problema stia nell’ordine dello spirito del tempo. Per altri, Burioni ha commesso un grave errore di comunicazione. Il debunking (lo smascheramento delle fandonie) sui social, quando ricorre a toni ultimativi ed escludenti, fallisce. “La comunicazione online avviene tra gruppi interessati, non all’informazione ma alla conferma di ciò che sanno: negare a qualcuno di essi il confronto serve solo a innervosirli e renderli più scettici rispetto alle evidenze fattuali”, dice al Foglio Sandro Jannaccone, giornalista scientifico che su Wired aveva riportato gli studi sullo scollamento tra le due maxi comunità della rete, gli scientisti e gli anti-scientisti, del tutto “scissi e non comunicanti tra loro”.

 

E’ probabile, dunque, che Burioni non abbia guadagnato alcun consenso tra gli anti-scientisti: la sua operazione, pur coraggiosa e meritevole, ha mancato il bersaglio. “Probabile che Burioni ha sgravato, ma voi discutereste co’ vostra madre de fuorigioco?” è lo status che “La Scienza Coatta” (LSC) ha pubblicato in merito alla faccenda. LSC è una pagina Facebook attiva da poco più di un anno (82 mila seguaci) e curata da ricercatori e giornalisti scientifici che non hanno velleità di divulgazione e lavorano nella direzione indicata da Ferrazzoli: costruire un immaginario, accendere un interesse. Come immagine di copertina c’è Einstein che fa surf, la didascalia recita “ve l’avevo detto che ce staveno le onde”. Sembra quasi satira, coerentemente al farsi quasi politica della scienza: qui sta la chiave della sua recente mutazione. Politica, dunque relazione. “La scienza offre l’amicizia con la realtà”, dice Paolo Bersanelli, ordinario di Astrofisica dell’Università degli Studi di Milano e star della divulgazione (ha da poco scritto per Sperling & Kupfer “Il grande spettacolo del cielo”), che lui considera “una sorta di testimonianza di quella che è l’esperienza del fare scienza”.

 

In più, Bersanelli spiega al Foglio che “se c’è qualcosa di davvero interessante in ciò che ricerchiamo, dev’essere comunicabile”. Il timone della divulgazione, quindi, non è necessariamente la semplificazione, “che spesso comporta la ricerca di mezzi che rischiano di banalizzare le cose o renderle fuorvianti”, ma può essere la ricerca di un’universalità. Così la mediazione lavora in maniera più profonda: rende la scienza una disciplina accessibile e spiega in che modo ci riguarda. Non è un caso se la filosofia si pone oggi il problema di “scienziati diventati la torcia della scoperta nella nostra ricerca di conoscenza” (questa citazione di Stephen Hawking alla conferenza “Google Zeitgeist” apre l’articolo di Graham Harman, pensatore del realismo speculativo, su “Il ruolo della filosofia in un’epoca di egemonia delle scienze naturali”, da poco tradotto dalla rivista online Il Tascabile). “Il linguaggio scientifico oggi consente di addentrarci nella realtà e indagare il nostro stupore”, dice Bersanelli. Il meravigliarsi che fondò la filosofia, oggi sostanzia la scienza e non smette di interrogare l’uomo. Fintanto che esisterà quella domanda, non ci sarà barbarie: se prima era una certezza filosofica, oggi è un’evidenza scientifica.