Il ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, Maurizio Martina (foto LaPresse)

Quando il consociativismo amorale tocca la comunità scientifica. Un caso

Gilberto Corbellini

Il Progetto Human Technopole mira alla creazione di un polo scientifico-tecnologico nell’area ex-Expo su “scienza della vita e della nutrizione". Lascia stupiti il metodo usato per progettarlo e fa temere una perdita di senso civico che minaccia la libertà della scienza, e quindi il futuro dei giovani.

La lettura del documento sul Progetto Human Technopole (HT), depositato in Parlamento dalla senatrice a vita Elena Cattaneo, che è prima di tutto neuroscienziata di statura internazionale, lascia sconcertati. Stupisce che così pochi scienziati (e in molti così lentamente) si siano schierati “contro” il metodo usato per progettare HT. Fa temere che troppe insensibilità, egoismi e prepotenze prevalgano nella comunità scientifica italiana. Con una perdita di senso civico che minaccia la libertà della scienza, e quindi il futuro dei giovani. HT è nato un po’ come Minerva dalla testa di Giove. Si narra che il primo catalizzatore sia stato il ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, lontano da un interesse autentico per la ricerca e l’innovazione, al punto da mettere sullo stesso piano il “genome editing” applicato alle piante e l’agricoltura biodinamica (a base di corni di vacca e vesciche di cervo, di cui il Foglio ha più volte scritto). Il progetto mira alla creazione di un polo scientifico-tecnologico nell’area ex-Expo su “scienza della vita e della nutrizione”. Sempre Martina, si dice, avrebbe suggerito di affidarlo all’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit), ritenuto un ente efficiente, benché dedicato non tanto alla ricerca ma al trasferimento tecnologico. Il presidente del Consiglio si affidava al percorso suggerito dal ministro Martina e dal direttore scientifico di Iit, Roberto Cingolani, e in men che non si dica annunciava a novembre che HT si sarebbe fatto, cioè che il governo ci metteva soldi (nostri) e faccia.

 

In qualunque paese civile, il governo non avrebbe cercato Iit, ma un certo numero di enti pubblici (o anche privati), chiedendo di discutere pubblicamente i contenuti da mettere nel progetto e la forma giuridico-istituzionale da dare a HT, e annunciando al contempo che sarebbero state istruite procedure competitive per selezionare idee (le migliori) e persone (quelle più brave) in grado di dare corpo a qualcosa come HT, nonché renderlo internazionalmente appetibile per investimenti e ampliamenti. Niente di tutto questo accadeva. Iit sceglieva di procedere non secondo le linee di buona pratica internazionale, ma all’italiana. Quindi chiamava un po’ di amici e di raccomandati, che proponevano di mettere dentro a HT quello che già si fa nei laboratori da loro diretti. Come se quando fu pensato il Progetto Genoma Umano ci si fosse affidati ai biologi molecolari che ancora non facevano sequenziamenti o usavano tecnologie obsolete, piuttosto che arruolare giovani biochimici aggressivi e innovativi. La genomica non sarebbe decollata in modi così rapidi ed efficienti. Se si investono 1,5 miliardi in dieci anni – cifra irrisoria oggi, visto che l’istituto tedesco Max Planck, che in Italia piace citare, quei soldi li digerisce in un solo anno solare – per competere internazionalmente, si deve almeno cercare di immaginare quali saranno le frontiere scientifiche e tecnologiche della biomedicina tra dieci anni. Ma per fare questo, ci vuole un po’ di tempo e si devono ingaggiare le idee più creative, che difficilmente si trovano nella testa di scienziati prossimi o oltre i sessant’anni.

 

Il progetto è stato fatto in pochi mesi con riunioni chiuse e organizzate verosimilmente a tambur battente. Si rimane curiosi di sapere come si siano spesi ben 80 milioni di euro già destinati per legge dal governo a Iit, solo per scrivere un documento e lavorando tre o quattro mesi. Siccome qualcuno si è innervosito per un modo così opaco di procedere, il ministero dell’Università – fino a lì estraneo alla vicenda – ha pensato bene di dare una copertura. Del resto neppure il ministro Stefania Giannini spicca, nel governo, per avere una visione pertinente e documentata di come si fa ricerca. E’ stata creata una commissione internazionale – di cui nessuno conosce la composizione – che dovrebbe valutare il progetto. Ma cosa vorrà dire valutare un progetto, che è anche l’unico in gara? Nella scienza e nell’accademia le valutazioni o sono comparative, o sono semplici opinioni. Insomma, speriamo che non si sappia troppo in giro com’è stato progettato HT, perché faremmo ridere un’altra volta. Ci si domanda come possano certi nomi importanti, blasonati per h-Index e Impact Factor, non interrogarsi sull’opportunità di partecipare a un’operazione che nei paesi sempre citati come modelli di buona scienza, sarebbe impensabile negli stessi termini.

 

Nel frattempo qualcuno si è chiesto: ma perché Iit? E così si sono studiate non solo le origini di Iit, ma anche che cosa quell’ente ha fatto di buono e come lo ha fatto nel corso dei suoi dieci anni di vita. Si è scoperto, come chiunque può leggere nel documento depositato in Senato che cita testi parlamentari e dichiarazioni Anac e Corte dei Conti, che Iit ha accantonato su un conto infruttifero della Banca d’Italia oltre un terzo dei fondi pubblici ricevuti (430milioni, mentre la ricerca italiana è alla canna del gas), che si autovaluta nominando lui stesso il comitato che lo giudica, che ha accumulato la miseria di 3 milioni di commesse industriali a fronte di circa 1 miliardo investito dallo stato nella sua missione di trasferimento tecnologico, che non ha amministrazione trasparente, che non arruola ricercatori più eccellenti di quelli presi dai migliori dipartimenti universitari, che si muove di fatto come un’agenzia di finanziamento stipulando collaborazioni senza una strategia comprensibile, che ha una governance quasi monarchica, di cui fanno parte esponenti del mondo industriale e finanziario (senza che ciò abbia aiutato a ricevere finanziamenti privati), eccetera.

 

L’Italia è rimasta almeno in parte quel paese civilmente arretrato di cui parlarono per decenni i sociologi internazionali, dopo che fu descritto nel 1958 nel nostro sud il fenomeno del “familismo amorale”. La vicenda HT, come molti dei casi di interferenza della politica nella decisioni tecnico-scientifiche di cui è stata testimone la storia recente (Di Bella, Stamina, eccetera), è l’evoluzione in chiave politica e in un contesto purtroppo di élite (per così dire) di un consociativismo amorale politico-affaristico, che corrompe irreversibilmente quello che il grande sociologo Robert Merton definiva l’ethos della scienza, e che si fonda sulla libertà della ricerca e la sua indipendenza dalla politica. Un ethos che, nel mondo civile, non è stato di fatto intaccato significativamente neppure dall’irruzione dei finanziamenti privati. E’ paradossale che da noi siano gli scienziati stessi a mettere in atto pratiche illiberali per realizzare ambizioni personali, e che la comunità scientifica si dimostri così genuflessa di fronte ai desiderata della politica.