Foto tratta dal profilo Facebook Sinistra X Roma - Municipio II

Il palazzetto di via Ticino e l'eterna lotta tra immobilisti e costruttori a Roma

Massimo Solani

Le ruspe hanno iniziato la demolizione dell’ex convento delle “Ancelle concezioniste del Divin cuore” a due passi dalla meraviglia del quartiere Coppedè, per far posto a una palazzina extralusso di 3.200 metri cubi

Roma. Alla fine fu la ruspa, Cassazione di un processo popolare durato settimane e combattuto fra sit in e titoli di giornale. La ruspa che lunedì ha iniziato la demolizione dell’ex convento delle “Ancelle concezioniste del Divin cuore” di via Ticino a Roma, due passi dalla meraviglia del quartiere Coppedè, per far posto a quello che nei progetti dei nuovi proprietari sarà una palazzina extralusso di 3.200 metri cubi, sette appartamenti, quindici box auto e sette cantine. “Un pugno in un occhio, uno sfregio incoerente con un contesto architettonico unico”, ha protestato un gruppo di residenti dietro le insegne di Italia Nostra. Poco importa che i nuovi proprietari, la Ns Costruzioni delle famiglie Navarra e Sbordoni, avessero dalla loro tutte le autorizzazioni possibili, sottoscritte e vidimate da Mibact, Soprintendenza, Comune di Roma e conferenza dei servizi. “Non si può abbattere un palazzo storico”, il mantra con cui Vittorio Sgarbi si è messo alla guida del piccolo esercito di contestatori chiedendo al ministro Franceschini di fermare le ruspe e porre sotto tutela l’edificio costruito negli anni 30 e poi ampliato con una soprelevazione due decadi più tardi. “L’immobile non riveste l’importante interesse artistico e storico richiesto dalla norma di tutela”, aveva già sancito la direzione regionale del ministero. Sono seguiti esposti alla magistratura, flash mob e persino una manifestazione di protesta di Fratelli d’Italia.

 

“Ma la guerra inizia ora – promette Oreste Rutigliano, presidente di Italia Nostra - Questo episodio sia la scintilla di una ribellione e di una richiesta di garanzie assolute per questi quartieri, amati da tutti. E’ urgente e necessario che sia apposto il vincolo paesaggistico non solo al Centro ma a tutta la città storica. Conservare è la vera modernità, abbattere è il regresso”. Scuote la testa Alessandro Sbordoni, uno dei soci della ditta costruttrice, mentre mostra a vigili urbani, carabinieri e tutti i documenti che autorizzano la demolizione. “Abbiamo completato un iter burocratico durato due anni – spiega – In uno stato di diritto questo vorrà dire qualcosa oppure l’ultimo che arriva può pensare di bloccare tutto e far ripartire le cose daccapo?”. Persino i proprietari del meraviglioso villino che sorge accanto alla struttura in demolizione, gli eredi del tenore Beniamino Gigli, non hanno trovato motivo di opporsi. “Quello che mi preoccupa di più a monte di questa vicenda surreale – si chiede Sbordoni – è come potrebbe reagire di fronte a questo genere di incertezza un investitore straniero. Come spiegargli che nonostante le carte in regola può arrivare qualcuno a chiedere che tutto si fermi?”.

 

Declinazione romana della più italica delle stranezze, sospensione perpetua fra cambiare tutto e non cambiare niente. Opposti estremismi che finiscono per essere le due facce di una stessa medaglia con cui la Città Eterna, quasi che l’eternità sia diventata essa per prima obbligo di perpetuo immobilismo, si ritrova paralizzata in un braccio di ferro fra gli appetiti di immobiliaristi spesso senza scrupoli e le difese, a volte sacrosante altre volte ideologiche battaglie di retroguardia, dei cultori della conservazione. Stallo allarmante per una città che ha perso il treno della modernità e si dibatte in una crisi economica certificata in questi giorni anche dai dossier del ministero dello Sviluppo Economico secondo i quali dal 2008 al 2016 il valore aggiunto della provincia di Roma è precipitato da 139 a 132 miliardi (-5,3% contro il +1,5% di Milano, -6 punti percentuali di Pil contro il +1 del capoluogo lombardo). E se Milano si gode la fama mondiale del Bosco Verticale di Stefano Boeri e l’onda lunga dell’Expo, a Roma si esulta per la cancellazione delle Torri di Libeskind dal progetto del nuovo stadio, sacrificate sull’altare ideologico della lotta al cemento in cambio di decine di milioni di euro fatti risparmiare ai costruttori in opere pubbliche di compensazione. Tutti contenti, tutti soddisfatti. Una situazione che preoccupa anche l’architetto Nicola Di Battista, direttore di “Domus”, che sulla rivista fondata da Gio Ponti nel 1928 tra anni fa scrisse un editoriale dal titolo “Se Milano torna a fare Milano” seguito poi, un anno fa, da “Se Roma non fa più Roma”. “Siamo un paese che ha vissuto stagioni straordinarie in termini di costruzioni di città e luoghi, ma sembra che da qualche tempo non ne siamo più capaci – ci dice – Solo le città dei morti restano uguali a se stesse. Generazioni e generazioni hanno contribuito a fare di Roma quel palcoscenico straordinario che è oggi, ma non vorrei che noi fossimo quella che ha smesso. La bellezza di Roma – continua – ha bisogno di progressi, la sua storia è unica perché è il risultato di un mondo di città. Cos’è successo a noi? Siamo diventato bravi unicamente a fare polemiche. L’architettura – conclude – serve a far vivere meglio la gente, è un fatto pubblico in cui occorre bilanciare contenuto e forma. Alla seconda possono pensare gli architetti, dopo, ma per curarsi del primo occorre innanzitutto condivisione con la società civile”.

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