Carlo Fuortes. Foto LaPresse/Daniele Leone

Fuortes racconta (e si racconta): "Nel 2013 eravamo come Alitalia"

Giuseppe De Filippi

Il sovrintendente dell’Opera di Roma ci parla di sé e di come è uscito dalla crisi il prestigioso teatro romano 

Da questa pagina, accusando in contumacia, cosa che non si dovrebbe fare, avevamo messo tra le gestioni capitoline efficienti ma non trascinanti quella del Teatro dell’Opera di Roma. Va meglio che nel passato ma non scalda i cuori dei romani, avevamo detto. Ma, non avendo noi confidenze riservate da ex banchieri con cui inchiodare chi ci pare, è bene che i giudizi dati in contumacia si mettano, quando possibile, alla prova della parte in causa. E il sovrintendente dell’Opera di Roma, Carlo Fuortes, ci risponde e poi obietta con tranquillità. Ci lascia parlare sui cuori non scaldati, ma resta solidamente agganciato ai suoi numeri di successo, alla conoscenza di una piazza assortita e un po’ cinica come quella romana, alla pace sindacale, alle prospettive incoraggianti per il futuro.

     

Ma ci parla anche di sé e della sua condizione di nominato da Ignazio Marino per un’istituzione culturale della città durante questa nuova stagione politica. La voce si fa ancora più calma se possibile e ci dice che per quanto lo riguarda non c’è alcun problema ora né prevedibilmente nei prossimi tempi con l’amministrazione comunale. Sappiamo poi, ma per prudenza chiediamo e otteniamo conferma, che con l’assessore alla cultura e vicesindaco Luca Bergamo i rapporti sono buoni e perciò non insistiamo sulla questione. Anche perché c’è da dar conto della gestione. Allora la voce ben impostata al basso di Fuortes si fa appena più accalorata e certo, dice, “il pubblico di Roma non è sempre facile da attrarre e in città ci siamo dovuti conquistare un posto in alto tra i luoghi di offerta culturale. Perché – ci spiega – qui non basta essere il teatro dell’Opera, ma bisogna meritarsi quasi ogni giorno la fiducia e l’interesse. A Milano, malgrado la ricchezza delle occasioni di spettacolo e di cultura in generale, la Scala è un punto di riferimento condiviso da tutti, è sentita come patrimonio cittadino, e sono gli altri a dover inseguire”. A Roma invece si fa più fatica? “Sì, ma non per questioni di concorrenza. La partita difficile è la conquista di quel poco di tempo libero, il vero bene scarso di questa epoca, a disposizione del nostro pubblico potenziale”. Ma i numeri ci sono e sono molto indicativi. “La biglietteria – ci dice Fuortes – ha fatto grandi progressi, mai in passato gli incassi da biglietti avevano superato i 7 milioni e mezzo all’anno, mentre quest’anno siamo quasi a 12 milioni. Eravamo il sesto teatro italiano per spettatori e ora siamo secondi dietro alla Scala. Abbiamo avuto due premi Abbiati per le nostre produzioni in un anno, contro zero riconoscimenti nei 35 anni precedenti”.

    

“Eppure – continua il suo racconto – nel 2013 eravamo una specie di Alitalia. Alto debito, perdite, conflittualità sindacale oltre il limite gestibile. Scontri durissimi, crollo delle produzioni, Riccardo Muti che nel 2014 lascia polemicamente”. Ma a quel punto appare il fantasma del fallimento, della chiusura, e tutto si rimette improvvisamente in moto, giusto? “Sì c’è una scossa e si arriva a un contratto, firmato a maggioranza, dopo una consultazione tra i lavoratori, che aumenta la produttività del lavoro del 30 per cento e da allora, dal 2014, non c’è più stato uno sciopero. Nel 2013 perdevamo 12,7 milioni di euro, ora abbiamo azzerato le perdite e anche il bilancio 2016 si chiuderà senza brutte sorprese (e progressivamente riusciamo a investire sempre di più, mantenendo il bilancio pareggiato come è obbligo di legge per una organizzazione come la nostra)”.

   

Ma la situazione patrimoniale non era compromessa? Sono serviti i soliti aiuti pubblici? “Non proprio, l’indebitamento era sì insostenibile ma con la legge Bray abbiamo potuto allungare le scadenze, a 30 anni. Ma non abbiamo avuto finanziamenti diretti aggiuntivi dallo stato. In quelle condizioni la scelta cruciale è stata non bloccare i nostri investimenti, evitare la strada dei tagli, ma anzi rimettere in moto la produzione e l’offerta. Resta un debito di circa 50 milioni ma strutturato in modo perfettamente sostenibile”. E il rapporto con i finanziatori e sponsor privati? “Migliorato anche quello, passando, anche grazie al bonus arte del ministero, da circa 7 milioni di contributi da aziende e da privati a più di 15 milioni”. E l’offerta, i risultati di questa stagione? “Prima di tutto ricordiamo anche la ripresa del balletto in città grazie alla direttrice del nostro corpo di ballo Eleonora Abbagnato,mentre per la lirica a dare il segno della crescita ci sono, e finalmente, anche le grandi coproduzioni internazionali con cui ci affianchiamo al Metropolitan, ai teatri di Amsterdam e Londra. Oltre al ritorno della proposta all’estero di nostre produzioni. Per quest’anni non saprei scegliere tra uno spettacolo e l’altro perché cerco proprio di seguire un criterio di continuità nella costruzione della stagione, non voglio il pezzo forte circondato da cose minori. Però certo mi danno una speciale soddisfazione personale il lavoro fatto per portare in scena Lulu di Alban Berg con la regia di William Kentridge e la scelta di avere finalmente a Roma il Rossini del Viaggio a Reims, mai dato in città, e con una produzione che spicca per intelligenza artistica da parte di Damiano Michieletto”.

Di più su questi argomenti: