Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Illogicità post aristoteliche di Di Maio

Luciano Capone

Il caso “vincolo di mandato”, che impedirebbe a lui stesso di governare

Roma. Da che mondo è mondo i politici sono accusati di non mantenere le promesse elettorali, di essere necessariamente un po’ bugiardi o faciloni, “dicono una cosa e poi ne fanno un’altra”. Da Antonio Razzi a Winston Churchill, dal peone al grande statista, tutti almeno una volta si sono contraddetti. E d’altra parte la coerenza in politica non è probabilmente nemmeno un pregio, ma a volte un impedimento ad affrontare le situazioni che cambiano e a cogliere le opportunità che si presentano. Eppure adesso riteniamo che i manuali del costume politico, e persino gli annali del luogo comune, debbano essere rivisti, riconsiderati, riscritti alla luce di un fenomeno che travolge ogni costrutto, non solo grammaticale, e mette in discussione persino le basi della logica aristotelica: Luigi Di Maio. Sentite qua, mentre parla dell’Unione monetaria. “Io non sono favorevole all’uscita dall’euro – ha sempre detto – ma se dovessimo arrivare al referendum, che per me è l’extrema ratio, è chiaro che io sarei per l’uscita”. Un uso più estremo della ragione sarebbe impossibile, qui la logica è già stirata come un chewing gum e l’impressione è quella di trovarsi di fronte a una mente che bussa alle porte del manicomio. Eppure lui, con il suo ultimo appello ai partiti per firmare un impegno all’introduzione del vincolo di mandato, riesce ad andare oltre. Quelle porte le abbatte. Se infatti la contraddizione, per il politico, è dire una cosa e dopo affermare il suo contrario, in Giggino Di Maio la contraddizione non è inter-temporale ma contemporanea. Lui non dice “A” e poi fa “B”, come tutti. Ma riesce – allo stesso tempo – a dire “A” e anche “non-A”, a violare insomma le colonne d’Ercole, il confine apparentemente invalicabile del pensiero logico, cioè il principio di non contraddizione.

 

Il Movimento cinque stelle si fonda su un valore non negoziabile: niente accordi con la vecchia politica. Quindi non si può andare al governo stringendo alleanze con i partiti. Pertanto la strategia per insediarsi a Palazzo Chigi, secondo Di Maio, è quella di presentare il suo programma in Parlamento e appellarsi alla coscienza dei singoli parlamentari. Questo implica che deputati e senatori, se vorranno appoggiare il governo Di Maio, dovranno tradire il partito con il quale sono stati eletti, una libertà costituzionalmente garantita. Ma per Di Maio questa è una vergogna: “Per noi il parlamentare è un portavoce delle istanze degli italiani. Se il programma per cui è stato votato non gli sta più bene, allora prende e se ne va a casa”. Così arriva la grande intuizione, la dimaiata, uno di quei momenti fatali in cui si rivela il genio: introdurre il vincolo di mandato. “E’ una misura presente nel nostro programma che è stata votata dagli iscritti ed è l’unico vero antidoto alla piaga dei voltagabbana che ammorba il Parlamento da anni”. A ben guardare sembra più che altro l’antidoto al suo governo. Chiunque si rende infatti conto che se Di Maio chiede l’impegno scritto a modificare la Costituzione per introdurre il vincolo di mandato, allora nessun parlamentare a quel punto può votargli la fiducia e far nascere il suo governo. Proviamo a immaginare come funzionerebbero le istituzioni con la logica di Di Maio. Mattarella gli dà l’incarico, altrimenti sarebbe un tradimento della volontà degli elettori. Di Maio non fa accordi con i partiti, altrimenti sarebbe un tradimento della volontà degli elettori. E per questo chiede la fiducia ai singoli parlamentari che appena gliela votano decadono in massa, perché hanno tradito la volontà degli elettori. Al loro posto subentrano nuovi parlamentari. E si ricomincia da capo. 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali