Pietro Grasso e Jeremy Corbyn (foto Facebook/PIetro Grasso)

Com'è triste e inutile la photo-opportunity di Grasso con Corbyn

Redazione

Leu pensa di essere il Labour italiano. Un errore di prospettiva che ha già fatto naufragare il progetto degli scissionisti "leftist"

L’effetto della photo-opportunity è stato straniante, decisamente controproducente. Andando fino a Londra per strappare a Jeremy Corbyn cinque minuti di colloquio e una fotografia, Pietro Grasso non ha fatto nulla di diverso da quanto facevano, ai loro bei tempi, D’Alema o Rutelli con Tony Blair. Un’operazione un po’ provinciale di autoaccreditamento, in scia con la scopiazzatura dello slogan della campagna (For the many, not the few) e del punto di programma lanciato per primo da Leu e poi fatto sbiadire (la cancellazione delle tasse universitarie).

 

Alla fine, quel che rimane evidente è soprattutto l’abissale differenza tra le due situazioni. Da una parte il leader di un grande storico partito che ora nei sondaggi naviga intorno al 40 per cento, testa a testa con i conservatori e con serie possibilità di succedere loro al governo; dall’altra il portavoce provvisorio di un cartello che ha già deluso le aspettative prima ancora di avvicinarsi ‪al 4 marzo, e che non vi sopravviverà a causa della totale divergenza di vedute al proprio interno, punto debole perfettamente colto dagli elettori.

 

In un recente sondaggio di YouGov, il Labour è accreditato di un impressionante 68 per cento nella fascia d’età 18-24. Risultato di molti fattori, compresa naturalmente l’altissima credibilità del quasi settantenne Corbyn, costruita in anni di militanza leftist discussa e discutibile ma sempre molto coerente, e rimanendo sempre all’interno del Labour, anche negli anni del dominio centrista dei blairiani. Esattamente l’opposto non solo del settantatreenne magistrato Grasso, ma di tutti i registi dell’operazione Leu, consumati interpreti di molte stagioni diverse e molti partiti diversi. Lo striminzito 8-10 per cento che gli ultimi sondaggi italiani pubblicati assegnavano a Leu tra i giovani (sempre meglio del 3 preso fra gli operai…) è la fotografia di una collocazione non credibile e non creduta, anche perché gli unici tre dirigenti di Leu effettivamente giovani – Speranza, Civati e Fratoianni – nelle liste e in tv si sono volentieri nascosti dietro i nomi e le candidature presunte più solide.

 

Dopo di che, Massimo D’Alema starà pensando che Leu vincerà in ogni caso la propria battaglia, almeno per come l’ha intesa lui: far perdere il Pd, spazzare dalla scena Matteo Renzi. Tecnicamente e numericamente, la cosa potrebbe anche rivelarsi vera. Politicamente, gli ultimi giorni stanno portando alla luce un panorama un po’ più complesso, inaspettato, tale da giustificare un’impennata di nervosismo e aggressività (per esempio di Laura Boldrini, nell’ambito di una campagna elettorale da separata in casa, o di Bersani).

 

La crescita di Emma Bonino, l’endorsement di Romano Prodi, il quotidiano rafforzarsi di Paolo Gentiloni e il ritorno sulla scena (dedicato solo al premier) di personaggi come Veltroni e Rutelli: tutto fa pensare che anche nel caso, eventuale e tutto da verificare, che dal ‪5 marzo si dovesse aprire la crisi della leadership Renzi, il pallino non cadrebbe mai nelle mani degli scissionisti ex Pd. La lista +Europa è ormai vissuta (anche fuori dalle élite) come alternativa più credibile e “utile” di quanto sia Leu, per chi non voglia votare le liste renziane. I padri ulivisti sono in campo anche e soprattutto come antidoto alla reazione dalemiana, per evitare che l’infinito duello nel centrosinistra si chiuda appunto come nel Labour (con una regressione alla sinistra tradizionale), senza peraltro nessuna delle speranze di vittoria che i laburisti possono coltivare. Il risultato di Leu potrebbe rivelarsi non solo numericamente deludente, ma anche politicamente ininfluente. Come questo processo totalmente interno e autoriflesso possa incrociarsi con le scelte di Mattarella e del sistema dei partiti dopo ‪il 4 marzo, è una incognita totale. Paradossalmente, ma non tanto, i fautori delle larghe intese dovrebbero tifare per un successo politico di D’Alema (esperto del ramo), perché invece l’eventuale slittamento ulivista-prodiano di un Pd post-renziano avrebbe il corollario di rapporti molto più difficili con Berlusconi: altro che permanenza a Palazzo Chigi del gentleman Gentiloni col benestare del Cavaliere...

 

Sarà anche per questo che nelle fila democratiche si fa strada un pensiero del tutto inconfessabile, oltre che di improbabile realizzazione: che queste elezioni, tutto sommato, sarebbe meglio che il centrodestra le vincesse davvero, da solo, sia pure di poco e con scarse prospettive di durata. Sì da lasciare al Pd e dintorni il tempo e lo spazio di una ricostruzione che altrimenti, se ci si dovesse far carico in contemporanea anche della governabilità per di più in un ruolo subalterno, sarebbe un’opera titanica, impossibile per chiunque.