Foto di Mike MacKenzie via Flickr

Il rischio che le fake news diventino il nuovo uomo nero della sinistra

Ha sempre dato la colpa delle sue sconfitte al Cav. e alle sue tv. Il Pd cresciuto nell’èra social non faccia lo stesso sbaglio

Le campagne elettorali del ventennio berlusconiano si svolgevano largamente in televisione, ma soprattutto si svolgevano “sulla” televisione. Alle proprietà del Cav. nel settore comunicativo, considerate a sinistra un’anomalia insopportabile e un inaccettabile vantaggio competitivo, si contrapponeva una barriera composta in parte dalla propaganda e in parte dalla continua rincorsa legislativa, fatta di regole, vincoli e divieti, di cui la legge sulla par condicio rimane in vita come residuo e come nocciolo duro. Senza voler sottovalutare l’effetto dell’ampio e smaccato uso che Berlusconi faceva dell’arma televisiva a fini politici, intorno a questo fenomeno la sinistra e l’Ulivo avevano costruito un racconto fosco ed efficace dell’Italia intera: paese prima sottilmente avvelenato (negli anni del boom della tv commerciale) e poi elettoralmente reso schiavo dal trasferimento sul piano politico di quell’apparato ideologico e culturale.

  

In questo modo la sinistra riproponeva in versione aggiornata il più tradizionale dei suoi schemi giustificazionisti, quello che da sempre le consente di scaricare la responsabilità di ogni sconfitta su qualche mostruosità esterna e superiore, dagli amerikani e i complotti della Cia a Mike Bongiorno e i tg di Emilio Fede. Teoria tanto più di successo se – come nel caso del potere e della capacità mediatica di Berlusconi – c’è parecchia sostanza a dare corpo al teorema autoconsolatorio.

   

E oggi? Non sarà che la campagna elettorale appena aperta stia diventando il remake di quelle consumate nell’inane duello tra il re delle televisioni e i suoi avversari? Tutto moltiplicato mille dall’incomparabile pervasività della rete. Con le fake news che prendono il posto e la funzione delle famose finte interviste per strada delle reti Fininvest, e la Casaleggio Associati nuova centrale di disinformazione organizzata, esauriti i fasti del Biscione. Con due costanti: la Lega che si infila e trae profitto dal potere comunicativo altrui; e il centrosinistra che, preso di sprovvista e incapace di competere su un piano che non è il suo, si affanna a contenere il danno con tonante denuncia politica e qualche rischio di scivolata censoria.

  

Strano che a questo esito rischi di approdare uno come Matteo Renzi, che fra i tanti altri meriti di rottura ebbe, agli inizi, quello di spezzare proprio la logica autoconsolatoria e demonizzante. Certo, Berlusconi non era più Cavaliere nero e anche la tv generalista non era più la stessa, ridimensionata come fattore di influenza elettorale e comunque disponibilissima a spalancare braccia e set al nuovo e giovane Bravo Presentatore, sicché anche la tradizionale occupazione manu militari della Rai per fare il controcanto a Mediaset è apparsa meno indispensabile che nel passato. Sta di fatto che il rapporto di Renzi con la tv – al netto delle improbabili accuse di epurazioni fra i conduttori di talk – è sempre stato diverso da quello di tutti i suoi predecessori, compreso il più televisivo di tutti (Veltroni) e compreso colui che per l’Ulivo ha storicamente gestito la materia, cioè l’attuale presidente del consiglio. Dove loro hanno speso anni e fatica a cercare di limitare l’invasione dello spazio politico da parte delle tv (e di chi le controllava e possedeva), Renzi ha percorso la strada inversa: ha invaso lui le televisioni, con la propria persona fisica più che con i luogotenenti nelle stanze dei bottoni, e da lì lo spazio pubblico degli italiani.

  

Ora però siamo nell’era social. Nella quale il Pd renziano è nato e cresciuto, e si trovava benissimo. Stile e contenuto della comunicazione dem si sono volentieri corrotti – in senso tecnico – con la rapidità, la sinteticità e ove necessario la volgarità della comunità digitale. Prima di scoprire che però anche qui, di nuovo, si stava riproponendo uno svantaggio competitivo. Vent’anni dopo i miracoli degli agenti di Publitalia, la viralità di Gian Roberto Casaleggio, applicata dagli gnomi della sua ditta, si mostra definitivamente più efficace degli sforzi dei molti comunicatori che si sono alternati e bruciati al Nazareno.

  

Ed ecco allora la reazione. La denuncia, le indagini, le ricostruzioni, i collegamenti svelati con i russi (come si cercò di fare per anni collegando Fininvest e cosche mafiose), i dossier per documentare gli inquinamenti sul web. Infine, puntuale come la par condicio, la legge (ancorché solo minacciata, siamo a legislatura morente). Non poteva mancare, in questo ritorno del sempre uguale, un ruolo per Economist e New York Times.

  

Che sulla rete e nei social si debba alzare il livello di vigilanza e consapevolezza, questo è ovvio, anche se è forte il dubbio che da quando la politica si è impadronita del tema, il concetto stesso di fake news si sia svuotato e diventato altro (per esempio, il cavallo di battaglia di Trump). Finendo per essere soltanto un altro tema di scontro e di reciproca delegittimazione, né più né meno dei più ammuffiti talk show, che invece di restituire credibilità all’informazione corretta cancella anche quella poca rimasta.

  

Ma a questo punto la domanda non è se sia giusto o meno battersi contro le fake news (è giusto), bensì l’efficacia di fare di questo il tema centrale (in questi giorni, l’unico) della campagna elettorale anti-populista.

  

Verso la fine degli anni 90 i più accorti nel centrosinistra capirono che l’ostinazione contro la mediocrazia di Berlusconi non scalfiva d’un solo voto il suo consenso elettorale, per un motivo banale: quegli italiani non votavano a destra perché credevano alle notizie di Studio Aperto, ma per ragioni più solide e soprattutto per una incrollabile sfiducia e ostilità verso la sinistra.

  

Così oggi. Come cercano vanamente di segnalare i più saggi tra i frequentatori ed esperti della rete, ancorché ci faccia impressione la percentuale di italiani che votano Cinque stelle o Lega perché seguono le campagne antivax o antieuro è ultraminoritaria, a fronte di uno zoccolo duro unito intorno a rocciose convinzioni ideologiche. Mentre per la fascia di elettorato molto più decisiva per Renzi – quella di chi non ha mai votato Grillo né Salvini, eppure stavolta pensa di non votare neanche per il Pd – la questione delle fake news è totalmente irrilevante: non è certo perché lo leggono sul Sacro Blog, che non si fidano più dei democratici, dunque non sarà attaccando il Sacro Blog che Renzi li riporterà indietro.

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