Tabacci, Vendola, Bersani, Prodi, Ambrosoli (foto LaPresse)

Mondiali, Ema. Cosa significa fare squadra?

Claudio Cerasa

Così due sconfitte possono indicare a FI e Pd le sceneggiate da evitare in campagna elettorale

La clamorosa eliminazione della Nazionale di calcio dai Mondiali e la dolorosa sconfitta dell’Italia nella partita valida per l’assegnazione dell’Agenzia del farmaco sono storie che non hanno molti punti di contatto ma che in modo forse indiretto ci offrono indicazioni preziose per capire quali sono le sfide che la politica italiana dovrà affrontare nei prossimi mesi, per non ritrovarsi nella stessa condizione in cui si sono ritrovate una settimana fa l’Italia di Giampiero Ventura e un giorno fa la Milano di Beppe Sala. Le storie sono diverse ma in entrambi i casi al cuore delle sconfitte ci sono due temi che saranno al centro della prossima campagna elettorale: cosa significa mettere insieme una squadra competitiva e cosa manca al nostro paese per contare in Europa. La Nazionale di calcio non è certamente lo specchio del nostro paese e il modello Milano è certamente lo specchio dell’eccellenza italiana ma nonostante questo oggi viene naturale chiedersi quali sono i principali punti di debolezza dei due schieramenti che si giocano verosimilmente la partita del governo dell’Italia: ovverosia, il centrodestra e il centrosinistra.

 

La campagna elettorale è ancora lunga e la vera corsa comincerà solo dopo le vacanze di Natale ma già oggi è possibile mettere a fuoco i due principali guai del centrodestra di Silvio Berlusconi e del centrosinistra di Matteo Renzi. E per quanto i percorsi siano differenti i problemi in realtà sono simmetrici e hanno un punto di contatto: la trasformazione della formula politica messa in campo per provare a governare l’Italia nella proposta centrale del proprio programma di governo. In questa logica pazzotica – in questa logica in cui il “mi alleo con chi” diventa quasi più importante del “mi alleo per fare cosa” – tra Renzi e Berlusconi l’unico che rischia di trarne un vantaggio è naturalmente il secondo, che ha fatto della “non divisione” un tratto peculiare della sua leadership ecumenica e che, essendo lui stesso il programma del centrodestra, può persino permettersi di non avere un programma chiaro per andare al governo.

 

Per Matteo Renzi invece la questione è più difficile ma semplice da spiegare: un leader orgogliosamente divisivo che ha provato a cambiare l’Italia facendo leva sul suo essere alternativo a una vecchia idea di sinistra quanto rischia di pagare il tentativo-sceneggiata di rimettere insieme tutti i cocci della sinistra, compresa quella rottamata? Probabilmente Matteo Renzi è il primo a sapere che una sinistra nata per superare il modello Unione ha una speranza di ottenere un risultato accettabile alle prossime elezioni solo non replicando il modello Unione. Ma in ogni caso lo spettacolo di questi giorni, le trattative con le sinistre lontane anni luce dal Pd, non è un granché e non riguarda solo l’oggi: riguarda anche il domani. In estrema sintesi: con che forza il Pd potrà rivendicare le mille ragioni che rendono il Pd alternativo alla sinistra a trazione sindacale (globalizzazione, lavoro, Jobs Act, giustizia, Europa) se alle elezioni il Pd si presenterà senza quella sinistra solo sulla base di una scelta subita e non del tutto rivendicata? Aver portato dalla propria parte Giuliano Pisapia, aver costruito un patto di non belligeranza con Romano Prodi e aver creato le condizioni affinché sia percepito che la sinistra isolazionista sia quella dalemiana e non quella renziana può avere un senso e può portare anche qualche granello di consenso. Ma per avere un paese più forte rispetto a quello che per mille ragioni non è riuscito a costruire su Ema alleanze più solide rispetto a quelle messe insieme da un paese che nell’ultimo anno è stato più mesi senza un governo che con un governo (l’Olanda) occorre mettersi in testa che la strategia dell’Unione senza programma può avere un senso per chi ha il vento in poppa mentre chi il vento non riesce più a intercettarlo come un tempo dovrebbe entrare in una nuova modalità: di chi capisce cioè che una divisione diventa un problema se viene subita mentre diventa un’opportunità se viene rivendicata. Per mettere insieme una squadra competitiva, e impegnarsi per far sì che il nostro paese possa contare di più in Europa, forse non si può non partire da qui.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.